Cambiano il “Padre nostro” e il “Gloria” …alcune nostre considerazioni

In questi giorni si sta parlando delle modifiche apportate dalla CEI in merito alla preghiera del Padre Nostro e del Gloria.

Non siamo intervenuti finora, perché tutto sommato riteniamo che la questione non sia decisiva. Ovviamente se ne può discutere l’opportunità, visto che stiamo parlando di modifiche che toccano preghiere dalla vita secolare.

Visto però che se ne continua a parlare. Ci preme fare qualche considerazione. Come sempre breve e schematica, com’è nello stile che ci siamo scelti.

Iniziamo dal Padre nostro.

Va detto che l’espressione “…non ci indurre in tentazione” (è da decenni che se ne parla) può lasciare intendere una cosa che non è teologicamente esatta, ovvero che Dio possa direttamente (attenzione a questo avverbio) essere causa della tentazione. Ovviamente, ciò non può essere perché l’autore della tentazione è il Maligno, e non certo Dio che è costitutivamente buono.

Pertanto, la modifica di questa espressione poteva rientrare nelle possibilità (anche se -a nostro parere- se se ne doveva valutare l’opportunità) di rendere più chiaro il concetto in merito al rapporto tra l’uomo, la tentazione e l’azione provvidenziale di Dio. 

La questione però è un’altra. Ed è appunto di opportunità, che non solo è legata al consolidamento della recita della preghiera, ma anche ad una mentalità oggi diffusa. L’espressione che è stata scelta “non abbandonarci alla tentazione” potrebbe significare due cose che sono ugualmente inaccettabili teologicamente.

La prima è quella di credere che Dio possa abbandonare nella dinamica della tentazione, una volta invocato. Cosa che non è. Quando si cede alla tentazione, la responsabilità è sempre dell’uomo. L’uomo può abbandonare Dio, non Dio l’uomo. Tant’è che sant’Alfonso giustamente diceva: “Chi prega si salva, chi non prega non si salva“, per far capire -appunto- che se s’invoca Dio, Questi non può non donare la grazia necessaria e sufficiente per superare ogni tentazione.

La seconda è che Dio non possa provvidenzialmente servirsi della tentazione. Ecco perché bisogna stare attenti all’avverbio “direttamente”. Dio non può direttamente tentare, ma indirettamente, permettendola si serve della tentazione per provarci. Il diavolo (ecco perché Dante ne descrive anche l’aspetto “comico”) diviene, nella prospettiva della Provvidenza, una sorta di “strumento” di Dio per la santificazione dell’uomo. Servire Dio quando non ci sono tentazioni, è facile. Servirlo, nelle tentazioni, è invece occasione di grande merito. Questo non significa che bisogna cercarsi le tentazioni (sarebbe un tentare Dio), ma se arrivano…

Veniamo al Gloria.

Qui la modifica -a nostro parere- è stata ancora più inopportuna. Infatti, la frase “uomini di buona volontà” è divenuta “uomini che Dio ama“. Una modifica che -al di là della correzione della traduzione- induce a sminuire la corrispondenza della libertà umana alla grazia salvifica di Dio. Tutto questo in clima di protestantizzazione della fede cattolica e della vita dei cattolici che è quella che è.

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6 Comments on "Cambiano il “Padre nostro” e il “Gloria” …alcune nostre considerazioni"

  1. …purtroppo questo è il risultato della chiesa di bergoglio! sempre schiava del mondo…

  2. In verità credo invece che vi non vi sia un problema solo di opportunità, ma anche di liceità, in quanto riguardo al Padre Nostro non si e’operata una traduzione ma una parafrasi.Sostanzialmentee’ stata riscritta una locuzione usata direttamente da Gesù. E’ come voler dire a Dio: guarda il tuo parlare è equivocabile, hai sbagliato a usare queste parole, ora ti spieghiamo noi come vanno dette le cose. A meno che il cambiamento si fondi sulla premessa che il vangelo sia già un’opera di rielaborazione o addirittura di costruzione della storia di Gesù di Nazareth. Anche l’artista gesuita M.Rupnic sostiene quest’ultima aberrante tesi, almeno nelle sue omelie..

    • Caro amico, il suo timore è ovviamente fondato. Le diciamo però che ci sono due tipi di approcci esegetici. Quello a cui fa riferimento rientra nel tentativo di “demitizzazione” del testo biblico. La modifica della frase del “Padre nostro” (prescindendo dalle reali intenzioni) rientra invece nell’ambito di una corretta traduzione che non può essere letterale. Ci risulta che la lingua aramaica non ha un verbo che esprime chiaramente la permissione, da qui la traduzione “non ci indurre in tentazione” che -come abbiamo già detto- non è teologicamente corretta. Poi, sull’opportunità della modifica ci siamo già espressi. Grazie del suo intervento.

  3. Non ci indurre in tentazioni … per me significa … ” Signore fa che non cadi in tentazioni, aiutami ad essere fedele a TE!!! “

  4. Pero’ la lingua aramaica non c’entra con la traduzione il cui oggetto è il testo greco. Anche se il vangelo di Matteo, secondo alcuni, sarebbe debitore più o meno diretto di papiri aramaici che però non ci sono pervenuti. I testi in aramaico disponibili sono tradotti dal greco..Ciò che intendevo dire è che se tradurre è soprattutto interpretare é pur vero che nel caso specifico se l’evangelista avesse voluto esprimere il senso dell’abbandonare qualcuno avrebbe potuto usare ἐκδίδωμι, παραδίδωμι (lasciare in balia). Quindi, e dato che il verbo εἰσφέρω è chiaro nel suo significato, mi sembrerebbe trattarsi formalmente di una traduzione che di fatto inserisce una parafrasi. Ora riporto di seguito un contributo interessante in merito di un esperto in filologia. “Per quanto riguarda il Padre Nostro, il testo a cui fare riferimento è il greco del Nuovo Testamento. Gesù parlava in aramaico, e anche apostoli, discepoli, evangelisti avevano l’aramaico come lingua materna (ma forse Luca no) e usavano (con qualche fatica e approssimazione) il greco in quanto lingua veicolare di tutto il Medio Oriente. Tuttavia l’unica fonte certa che possediamo (l’unica fonte autorizzata, per usare un’espressione moderna!) è il greco del Vangelo. Ipotizzare possibili errori e fraintendimenti dei due evangelisti (Mt. 6, 13 = Lc. 11,4) che hanno riportato in greco le parole in aramaico di Gesù è fatica inutile, perché non vi sono elementi sui quali impostare una discussione seria.
    c. Il verbo (εἰσενέγκηῃς) è chiaro e non ammette discussioni: εἰσφέρω è ‘portare dentro’ o ‘portare verso’ (‘bring on or upon, introduce’ secondo il Liddell-Scott; ‘llevar, conducir’ secondo il DGE, che cita fra gli altri proprio questo passo). Anche i testi non letterari dell’epoca (papiri) mettono in luce nettamente questo valore. Corretta quindi la traduzione della Vulgata ‘inducas’, sulla quale è basata la traduzione italiana corrente.
    d. Sul sostantivo (πειρασμόν) si sarebbe potuto lavorare con più frutto: πειρασμός vale ‘prova’; la traduzione della Vulgata (temptatio) è corretta, ma nella tradizione italiana sulla parola ‘tentazione’ si sono sovrapposte delle incrostazioni moralistiche che hanno allontanato la parola dal suo valore primitivo, abbastanza chiaro e circostanziato: temptatio è ‘prova, esperimento’, anche in senso fisico (‘attacco di una malattia’). In sostanza ‘inducas in temptationem’ è ‘introdurci alla prova, metterci alla prova’, che, se proprio si voleva cambiare, sarebbe stato cambiamento molto più agevole.
    Moreno Morani su Fb

  5. Straordinariamente prudente e opportuno il Suo commento, caro Gnerre!
    Che Dio La benedica e Le consenta di diffondere sempre di più la Sua catechesi cristiana.

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