In India una mucca vale più di una donna… ma le “orientaliste” di casa nostra lo sanno?

Donne che posano di fronte all’obiettivo fotografico indossando sul capo una maschera con la testa di vacca. È il progetto di Sujatro Ghosh, un giovane fotografo di 23 anni che vive a Delhi e che sta fotografando le sue amiche nei luoghi più famosi della capitale dell’Unione. Con quei scatti vuole lanciare una provocazione: perché in India le donne vengono considerate meno delle vacche sacre? Secondo dati recenti, ogni 15 minuti una donna indiana subisce uno stupro. Le sue foto, diffuse su Facebook e Twitter e riprese dalla Bbc, hanno fatto il giro della rete. In pochi giorni il ragazzo si è ritrovato sommerso da critiche positive e negative. Da un lato, egli ha ricevuto la solidarietà di donne da ogni parte del mondo, desiderose di partecipare alla sua campagna. Dall’altro, contro di lui si sono scatenate le ire dei “vigilanti delle vacche”, che promettono la giusta punizione.

Questa notizia è stata pubblicata su repubblica.it e da altri siti

Molti orientalisti di casa nostra non vogliono sapere e non vogliono vedere, ma la condizione della donna nella cultura indù è terribile.

Vi è una celebre parabola di questa tradizione (quella delle tre frecce) che parla della possibilità di raggiungere quanto prima la liberazione dal karman, cioè dal ciclo delle reincarnazioni (nelle religioni orientali la reincarnazione non è un premio ma un castigo). Ebbene, questa parabola dice che rispetto al proprio karman ciascun uomo al momento della nascita è simile ad un arciere che dispone di tre frecce. Una l’ha già scoccata e non può più richiamarla indietro. Questa, che raffigura il karman costruito nella vita precedente, è il prarabdha-karman  e da esso dipendono le condizioni dell’esistenza attuale. Una seconda freccia è già posta sulla corda dell’arco, ma la sua portata e la sua direzione dipendono ancora dall’arciere. C’è infine l’agami-karman, la terza freccia ancora nella faretra; freccia che non appartiene più al passato ma al futuro. L’arciere ne può disporre liberamente e costruirsi un karman anche in opposizione a quello che porta con sé dalla nascita. Ma questa parabola non vale per la donna, la quale non può arrivare, come donna, al miglioramento del proprio karman. Ella deve rassegnarsi a vivere come donna, sperando di poter rinascere uomo per poter migliorare la propria condizione.

La maggioranza degli indù ortodossi (bramini ed altri) non mangia in compagnia delle mogli. Alle donne è perfino interdetta la lettura dei Veda. E quando nasce un bambino, il rituale prevede che il neonato venga posto su di un vaglio in cui sono state messe delle ceneri di sterco di vacca, dello zafferano e alcune monete. Se il neonato è maschio, si batte su un piatto di rame per allontanare eventuali spiriti maligni; ma se è donna, non è necessario, perché non c’è alcun motivo per cui gli spiriti debbano essere invidiosi di una donna. La donna non può generare invidia perché la sua è una condizione di punizione nella dinamica del karman.

Ma perché questa avversione nei confronti della donna da parte della cultura indù? Premettiamo che nei testi sacri non c’è chiarezza sul punto, ma tutto sembra propendere sul fatto che si nasce donna perché nella vita precedente non ci si è comportati bene. Quindi è una punizione. Se nella cultura occidentale e cristiana l’essere donna risponde ad una specifica e nobile vocazione, nella cultura orientale non è così.

Ma c’è anche una spiegazione più articolata, più profonda. La cultura indù è fondata sul monismo, cioè sulla convinzione che la realtà è formata da una sola sostanza che si esprime differenziandosi. La diversità delle cose è solo apparente. Le cose sono solo diverse espressioni di un’unica sostanza. L’esistenza della materia è illusoria. Il brahman è l’essere impersonale che costituisce l’unica e sola sostanza; questo brahman si può individualizzare divenendo atman, ma anche quando diviene atman rimane pur sempre brahman. Questo monismo non solo causa la negazione del concetto stesso di persona, ma anche la negazione di tutto ciò che è strettamente legato alla persona; per esempio: la libertà e la dignità di ogni essere umano. Se esiste solo il tutto, l’individualità si annulla in un magma indistinto.

Ecco il perché della svalutazione della donna. E da qui si spiegano anche rituali come quello famoso del sati (narrato nel celebre romanzo Il giro del mondo in ottanta giorni di Verne) il quale prevede che le vedove debbano immolarsi dopo la morte del marito. Proibito dal governo inglese nel 1829, questo rituale persiste clandestinamente soprattutto tra i Naga, i Bhilla e i Pulinda.  Agli anni ’90 del secolo scorso c’erano sono dati che parlavano di circa venticinquemila giovani spose che, ogni anno, venuvano arse vive; mentre altre centinaia di migliaia erano costrette ad una vita infernale dai parenti del marito che utilizzerebbero qualsiasi tipo di tortura fisica e psichica in caso di non corresponsione della dote. Le vedove, ancora oggi, devono radersi i capelli dopo la morte del marito e devono pregare affinché la loro morte giunga al più presto. E ancora: non nel Bengala di secoli fa, ma in quello di oggi, tante donne vengono uccise perché accusate di stregoneria su istigazione degli janguru (gli stregoni locali). Sono accusate di attirare, a causa di presunte arti magiche, epidemie di uomini e di bestiame.

Ci sono altri dati allarmanti: scende la componente femminile tra i bambini al di sotto dei sei anni. Il motivo è facilmente intuibile: la tecnica ecografica dà la possibilità di conoscere il sesso del nascituro; e, quando è donna, gli Indiani non raramente preferiscono abortire. Già nel censimento del 1991 era venuto fuori qualcosa di simile, tanto che il governo cercò di correre ai ripari con una legge approvata nel 1994 e che avrebbe dovuto prevenire il feticidio femminile. Si vietò ai medici -con pena fino a tre anni di carcere e possibile sospensione dalla professione- di rivelare ai genitori il sesso del nascituro. Nel 1995 il dottor Giuseppe Benagiano, presente alla Conferenza Mondiale sulla Donna che si svolse a Pechino nel 1994 per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, su un quotidiano italiano disse che la legge era stata disattesa e parlò esplicitamente di “orientamenti culturali” come causa di queste pratiche abortive.

Gli orientalisti di casa nostra (soprattutto le orientaliste!) se sapessero queste cose, continuerebbero ad affascinarsi alle magiche atmosfere del Gange? Forse sì. D’altronde l’Oriente è per loro una parvenza intellettuale e alla moda piuttosto che il desiderio di cambiare radicalmente vita; soprattutto perchè in certi ambienti definirsi cristiani e manifestare affezione alla tradizione occidentale è poco chic!

Oriente sì, ma quello di casa nostra: con telefonino, palestra e carta di credito… infischiandosene di cosa realmente insegnano guru e testi sacri.

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