SOSTA – Può bastare una pastorale sentimentalista per affascinare i giovani al sacerdozio?

di Corrado Gnerre

Da molto tempo a questa parte i numeri in merito alle ordinazioni sacerdotali sono impietosi. Accade in Italia, accade anche in altri contesti nazionali.

Nel gennaio del 2017, papa Francesco pronunciò queste parole ad un convegno promosso dall’Ufficio nazionale per la Pastorale delle Vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana: “C’è bisogno oggi di una pastorale vocazionale dagli orizzonti ampi e dal respiro di comunione; capace di leggere con coraggio la realtà così com’è con le fatiche e le resistenze, riconoscendo i segni di generosità e di bellezza del cuore umano. C’è l’urgenza di riportare dentro alle comunità cristiane una nuova cultura vocazionale”. E ancora: “Fa parte ancora di questa cultura vocazionale la capacità di sognare e desiderare in grande, quello stupore che consente di apprezzare la bellezza e sceglierla per il suo valore intrinseco, perché rende bella e vera la vita. Non stancatevi di ripetere a voi stessi: ‘io sono una missione’ e non semplicemente ‘io ho una missione’”, (…) È bello sapere che il Signore si fa carico delle nostre fragilità, ci rimette in piedi per ritrovare, giorno dopo giorno, l’infinita pazienza di ricominciare” e di “individuare con coraggio strade nuove nell’annuncio del vangelo della vocazione”. All’inizio aveva detto: “Per essere credibili ed entrare in sintonia con i giovani, occorre privilegiare la via dell’ascolto, il saper ‘perdere tempo’ nell’accogliere le loro domande e i loro desideri.”

Belle parole. Ma centrano il problema? Riteniamo di no.

Il problema è un altro e sta proprio -ci duole dirlo- in ciò di cui spesso si fa promotore il Santo Padre, ovvero la riduzione pastoralista dell’annuncio, fino ad affermazioni che sono assolutamente inaccettabili come il ritenere che il proselitismo verso altri cristiani sia addirittura un grave peccato. Intervistato il 17 novembre del 2016 da Stefania Falasca, il Santo Padre ebbe a dire: “Il proselitismo tra cristiani è in se stesso un peccato grave.” (Per leggere l’intervista, clicca qui). Affermazione, questa, che essendo stata detta in un atto non magisteriale come un’intervista, è stata trascurata, ma di per sé è un’affermazione oggettivamente non-cattolica e perfino anti-cattolica.

Ma torniamo alla questione delle vocazioni.

Si fanno convegni, piani pastorali, incontri e giornate di preghiera; tutte cose buone…anzi ottime (cosa c’è di più importante della preghiera?), ma si rivelano come fatiche di Sisifo, cioè inutili. E questo perché si dimentica una cosa e cioè che oggi non si sottolinea abbastanza l’esclusivismo salvifico del Cattolicesimo. Cioè il fatto che la salvezza è solo nella Chiesa cattolica. Coloro che non sono cattolici non per propria colpa possono ugualmente salvarsi ma non grazie, nonostante le loro false religioni; sempre che si sforzino di aderire alla coscienza naturale. In questo modo, solo in questo modo, pur non sapendolo, costoro entrano a far parte della Chiesa (che è l’unica che salva) aderendo alla sua anima, anche se non al suo corpo.

Ora, tutto questo non lo si dice più. Da qui la prevedibile conseguenza (che è ormai presente da decenni) secondo cui, per la salvezza eterna, tutte le religioni sarebbero buone.

E invece non si può risolvere la crisi delle vocazioni senza riproporre l’esclusivismo salvifico del Cattolicesimo.

Facciamo un esempio. Un giovane pensa di avere la vocazione al sacerdozio. Sa che si tratterà di una vita con numerose rinunce. Poi gli fanno capire che, in realtà, tutti si salvano indipendentemente dalla religione che si professa. E’ naturale che qualche dubbio gli venga. Potrebbe facilmente pensare: “Chi me lo fa fare? Se ogni religione è buona, a che serve il sacerdozio cattolico?

Si potrebbe obiettare: nessuno deve credersi indispensabile. Verissimo. Ma ciò vale per la propria persona, non per la funzione che si ricopre. Chiariamo. Don Tizio deve essere sì consapevole della sua inutilità (siamo tutti “servi inutili”), ma non può ritenere inutile –anzi!- il suo sacerdozio. L’inutilità vale per la propria persona non per il ruolo che si ricopre nella Chiesa.

D’altronde la bellezza del sacerdozio cattolico sta proprio nel portare a tutti la Grazia per donare il Paradiso.

Leggiamo queste bellissime parole del Santo Curato d’Ars: “Quando vedete un sacerdote, dovete dire: ‘Ecco colui che mi ha reso figlio di Dio e mi ha aperto il cielo per mezzo del santo Battesimo, colui che mi ha purificato dopo il peccato, colui che nutre la mia anima.’ Il sacerdote è per voi come una madre, come una nutrice per il neonato: ella gli dà da mangiare e il bimbo non deve far altro che aprire la bocca. La madre dice al suo bimbo: ‘Tieni, piccolo mio, mangia’. Il sacerdote vi dice: ‘Prendete e mangiate, ecco il Corpo di Gesù Cristo. Possa custodirvi e condurvi alla vita eterna’. Che belle parole! Il sacerdote possiede le chiavi dei tesori del cielo: è lui ad aprire la porta; egli è l’economo di Dio, l’amministrazione dei suoi beni.”

Tolto questo, che rimane? Su cosa si fonderà l’attrazione di un giovane? Su altro che non costituisce l’essenza del sacerdozio.

Può bastare, come ha detto il Papa, curare “orizzonti ampi, “respirare la comunione“, “leggere la realtà così come è“, “riconoscere i segni di generosità e di bellezza del cuore umano”, il “sentirsi missione e non solo fare missione”, ecc…?

Con grande rammarico, ci sentiamo di dire al Papa che con questi sentimenti non si risolve la questione delle vocazioni.

Bisognerebbe invece capire che non da oggi, ma da troppo tempo, questa pastorale sta fallendo.


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