14 luglio: San Bonaventura da Bagnoregio. Non c’è felicità possibile se non nel Fine ultimo

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


Il 14 luglio la Chiesa ricorda un grande suo figlio: san Bonaventura da Bagnoregio. Dal suo pensiero si capisce bene quanto questo santo francescano sia espressione coerente dell’originalità della cultura medievale  


Esponente della cosiddetta “scuola francescana”, san Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274) ha saputo bene esprimere quattro tipiche caratteristiche della civiltà medievale: il Dio presente, l’uso corretto della ragione, il  senso unitario della cultura e il necessario perseguimento della felicità umana.   

La vita

San Bonaventura si chiamava Giovanni di Fidanza. Nacque a Civita di Bagnoregio presso Viterbo nel 1217. Egli stesso narra che da bambino si ammalò di un morbo che lo stava conducendo alla morte, ma poi fu risanato da san Francesco in persona il quale, facendo su di lui un segno di Croce, pronunziò queste parole: “Bonaventura”. Fu guarito e così da allora fu chiamato “Bonaventura”. Entrò nell’ordine francescano e compì gli studi a Parigi, dove iniziò anche ad insegnare. Qui, però, fu ostacolato dai secolari (i non appartenenti ad ordini religiosi) che non ammettevano che ad insegnare fossero i regolari (gli appartenenti ad ordini religiosi). I secolari dicevano ch’era un bene che i regolari non insegnassero affinché non si deconcentrassero dalla loro vita ascetica. Dopo lunghe dispute, la controversia si risolse in favore dei regolari che ottennero la possibilità d’insegnare. Grazie agli argomenti di due giganti: il nostro san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino.

San Bonaventura fu eletto generale dell’ordine dei Frati Minori, poi venne nominato cardinale e vescovo di Ostia da papa Gregorio X. Partecipò ai lavori del Concilio di Lione e lì morì nel 1274. La sua opera più importante è Itinerarium mentis in Deum, del 1259. 

Dio non solo esiste…ma c’è!

Una delle caratteristiche più significative della cultura medioevale fu quella di non separare il naturale dal soprannaturale, in una prospettiva che non fosse solo di semplice riconoscimento intellettuale del soprannaturale stesso, ma che si trasformasse inevitabilmente in consapevolezza dell’esserci di Dio in tutto, del vivere nella tensione verso l’Eterno. San Bonaventura dice chiaramente che Dio è l’essere assoluto, eterno, provvidente e…illuminante. Illuminante, perché la vita, la sapienza, la bontà e l’amore di Dio sono la luce stessa di Dio impressa nelle cose al momento della creazione. Con questa teoria si riconosce un legame stretto tra Creatore e realtà creata, legame che però non cade nel panteismo (cioè l’identificazione tra Creatore e creato). Insomma, san Bonaventura sceglie questa teoria perché convinto che solo così si possa spiegare il continuo intervento provvidente di Dio nel creato. Tutto l’universo -dice- è manifestazione evidente dell’esistenza di Dio. Ma oltre questa evidenza di carattere esterno (il creato che fa capire l’esistenza di un creatore), san Bonaventura, come sant’Agostino e sant’Anselmo, insegna che Dio è presente in ciascun essere, specialmente nell’anima umana, secondo quella luce di cui abbiamo già parlato.

Il senso comune e l’uso corretto della ragione

San Bonaventura, da buon francescano, è affascinato dalla filosofia di sant’Agostino; ma era troppo intelligente per decidere di trascurare quella di Aristotele. Certo, quest’ultimo faceva un po’ paura perché alcuni filosofi (per esempio Averroé) avevano trasformato il pensiero dello Stagirita (pensiero ch’era rigorosamente razionale) in un pensiero razionalistico.

Ma san Bonaventura, da buon medievale, è convinto di quanto l’esistenza di Dio sia nel senso comune, e che le certezze del senso comune possano essere arricchite (ma non fondate) dal rigore delle dimostrazioni filosofiche. Così, come già sant’Anselmo, ritiene comune a tutti la nozione di Dio e polemizza con coloro che negano la sua esistenza dimostrando che tale negazione è logicamente impossibile, una volta ammessa la nozione di Dio.

Insomma, san Bonaventura sa essere equilibrato, senza far torti né a sant’Agostino né ad Aristotele. L’intelletto non può conoscere il mondo della materia se non per mezzo dei sensi (ecco Aristotele). Il dato dei sensi, però, non resta nel soggetto così come vi giunge, ma viene elaborato dalla potenza intellettiva che ne astrae l’universale. Tutto questo lavoro non deriva dai sensi, ma da un potere dell’anima. Il dato dei sensi è lo stimolo primo, ma la mente prende poi subito il sopravvento e, librandosi sovrana sulla sensibilità, lavora attraverso la luce divina che possiede (ecco sant’Agostino).

La reductio ad unum

San Bonaventura, da buon medievale, dice che la conoscenza fine a se stessa non vale a nulla, questa ha senso se fa vivere meglio, se fa raggiungere la felicità, che è unicamente Dio e in Dio. Ed ecco spiegato perché egli non distingue tra conoscenza, vita morale e ascetica e ne parla come di un unico viaggio dell’anima, un itinerario della mente verso Dio (itinerarium mentis in Deum). Un itinerario che è formato da sei gradi fino a raggiungere l’unione con Dio senza perdere la propria individualità.

Con questo procedimento, san Bonaventura evita qualsiasi tipo di spiritualismo astratto. L’uomo arriva a Dio partendo dalle cose della sua vita quotidiana, ma non solo nel senso della conoscenza filosofica, anche nel senso della conoscenza come semplice studio delle cose. Tutto, se è conosciuto bene, concorre al raggiungimento di Dio; perché la realtà è una sorta di sinfonia di Dio. Il primo grado dice infatti che per mezzo dei sensi esterni l’anima apprende la bellezza del creato e tende al creatore.

L’uomo è fatto per la felicità

In san Bonaventura il problema morale non è distinto dagli altri problemi filosofici. Anche in questo c’è l’autentico pensiero medievale. Nell’azione morale l’uomo ha coscienza di un obbligo, sente cioè di essere subordinato ad una legge che non deve trasgredire se vuole essere felice. San Bonaventura, capendo bene che la morale cristiana non è fine a se stessa, afferma che l’uomo è fatto per la felicità. Anzi, nella felicità trova un’altra testimonianza in favore dell’esistenza di Dio: “la felicità è l’oggetto che più intensamente si ama. E la felicità non si possiede, se non si raggiunge il massimo bene che è il fine ultimo”… cioè Dio!


Dio è Verità, Bontà e Bellezza

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