SOSTA – Risposta al cardinale Coccopalmerio

Il cardinale Coccopalmerio ha pubblicato un libretto in merito alla nota otto dell’Amoris laetitia, la controversa nota che fa riferimento ai divorziati risposati e alla loro possibilità di ricevere l’Eucaristia. Il titolo del libretto è: Il Capitolo ottavo della esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia.

Andrea Tornielli su vaticainsider.it lo ha recensito. Ne riportiamo alcuni passaggi:

Le pagine più dense e articolare del libro sono quelle relative alle «condizioni soggettive o condizioni di coscienza delle diverse persone nelle diverse situazioni non regolari e il connesso problema della ammissione ai sacramenti della penitenza e della eucaristia». Coccopalmerio sottolinea come limiti e ostacoli non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma vigente (…) «un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa». Sono tre le motivazioni che esimerebbero la persona «irregolare» dall’essere in condizione di peccato mortale: una eventuale «ignoranza della norma» e pertanto la non colpevolezza nel caso di infrazione della norma stessa; una «grande difficoltà nel comprendere i valori insiti nella norma morale»; «condizioni concrete che non… permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa», «fattori che limitano la capacità di decisione».  (…). La terza delle tre motivazioni «è la più problematica». Amoris laetitia, citando anche Giovanni Paolo II, parla di coppie che pur nella «consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione» hanno «grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe», e «situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione». Coccopalmerio osserva che il testo, pur non affermandolo esplicitamente, presuppone in modo implicito che queste persone siano intenzionate a «cambiare la loro condizione illegittima». Cioè si pongano «il problema di cambiare» e quindi abbiano «l’intenzione o, almeno, il desiderio» di farlo. (…) Il cardinale fa un esempio concreto per spiegare quanto appena affermato, proponendo quello «di una donna che è andata a convivere con un uomo sposato canonicamente e abbandonato dalla moglie con tre bambini ancora piccoli. Orbene, questa donna ha salvato l’uomo da uno stato di profonda prostrazione, probabilmente dalla tentazione di suicidio; ha allevato i tre bambini non senza notevoli sacrifici; la loro unione dura ormai da dieci anni; è nato un nuovo figlio. La donna della quale parliamo ha piena coscienza di essere in una situazione irregolare. Vorrebbe sinceramente cambiare vita. Ma, evidentemente, non lo può. Se, infatti, lasciasse la unione, l’uomo tornerebbe nella condizione di prima, i figli resterebbero senza mamma. Lasciare l’unione significherebbe, dunque, non adempiere gravi doveri verso persone di per sé innocenti. È perciò evidente che non potrebbe avvenire “senza una nuova colpa”». 

Le argomentazioni del Cardinale sono articolate, ma fallaci. Vediamo perché.

Ci serviamo di un esempio. Mario Rossi va in una terra in cui i cristiani sono perseguitati. Viene catturato e uno dei suoi aguzzini gli ordina di ripudiare la Fede altrimenti lo ucciderà. Che si penserebbe se Mario Rossi facesse questo ragionamento: è bene che non mi faccia ammazzare altrimenti costringo chi mi ha catturato di macchiarsi di una colpa ancora più grave? Avrebbe legittimità morale un tale ragionamento? Ovviamente no.

Qualcuno però potrebbe fare delle obiezioni a questo esempio. La prima obiezione: l’esempio non regge perché nel caso Mario Rossi decidesse di ripudiare la Fede, impedirebbe al suo aguzzino di fare un peccato più grave, ma sarebbe poi lui a farlo. Vero, ma questo vale anche nella situazione citata dal Cardinale. Qualora la donna decidesse di continuare a vivere come moglie del suo convivente, nella consapevolezza di non esserlo (per cui non si può parlare di ignoranza), il peccato ci sarebbe anche per lei. E non sarebbe un solo peccato, ma molteplici. La seconda obiezione: l’esempio non regge perché l’aguzzino ha già peccato nella sua coscienza, anche se si trovasse nella situazione di non doverlo più fare. Risposta: Vero, ma ciò vale anche nella situazione citata dal Cardinale. Infatti, indipendentemente dalla scelta della donna, il convivente ha già fatto la scelta di non rispettare la Santa Legge di Dio sul matrimonio.

Ma a coronamento di tutto questo va detto che l’argomento utilizzato dal cardinale Coccopalmerio è un tipico argomento “machiavellico” in cui non vale il cosiddetto principio del doppio effetto che la morale cattolica contempla. Questo (il principio del doppio effetto) non è operare il male, ma fare il bene possibile. Facciamo anche qui un esempio. Mi trovo su un solaio di balcone senza ringhiera. Con me c’è un bambino e un vecchio. Contemporaneamente i due scivolano, ma non cadono perché si aggrappano al solaio del balcone. In quel momento mi accorgo che non posso tirarli su contemporaneamente (non ce la posso fare), pertanto decido di offrire le mia braccia prima al bambino e poi al vecchio. Se intanto il vecchio cade non è stata colpa mia, non potevo fare altrimenti. Altra cosa sarebbe se dessi un calcio al vecchio per salvare il bambino. In questo caso sarebbe “machiavellismo”: farei attivamente un male per evitarne uno che ritengo maggiore.

Per concludere: il cardinale Coccopalmerio con questo suo argomento ha complicato, non facilitato, ciò che è purtroppo presente nell’Amoris Laetitia, ovvero l’eventuale possibilità di far accostare i divorziati risposati all’Eucaristia. Ha dimostrato ancora di più quanto inconsistente sia questa possibilità e come, contemplandola, ci si allontani inequivocabilmente dall’insegnamento di sempre della Chiesa.

Diventa sempre più chiaro che ormai si sta perdendo un caposaldo della morale cattolica: ovvero il riconoscimento di atti intrinsecamente peccaminosi. Dire che si può commettere scientemente un peccato (o dei peccati, come gli atti coniugali quando non c’è la vita coniugale) per evitarne altri maggiori, vuol dire non tener conto che ogni peccato grave ha un valore “infinito” (utilizziamo le virgolette perché non è del tutto appropriato questo aggettivo, ma è per farci intendere) dinanzi a Dio, tant’è che già un solo peccato mortale fa meritare la condanna eterna. La differenza di gravità tra i peccati mortali, che esiste, vale quando questi sono perdonati, nel senso che un conto sono le pene da scontare in purgatorio per una rapina, altro per un omicidio. Ma in sé ogni peccato mortale è talmente grave che non c’è male sulla terra che la possa oscurare in gravità. Un solo peccato mortale è più grave della più grave catastrofe. Tanto è vero che san Tommaso d’Aquino scrive: “(…) il bene della Grazia di un solo uomo è maggiore del bene naturale dell’universo intero.” (Summa Theologiae, I-II, q.113, a.9, ad 2)

Paolo VI insegna: «In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali». (Humanae Vitae, del 25 luglio 1968, 14)

Dunque: “neppure per ragioni gravissime…” Neppure per: “…salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali.” 

Ormai i Cardinali “per-cui- il- Vaticano II- è un -super-dogma“, smentiscono anche i Papi del Concilio!

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