TAPPA – La bellezza della Regalità Sociale di Cristo

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


Le tappe trattano argomenti importanti e perenni per la formazione cristiana attraverso il metodo che Il Cammino dei Tre Sentieri, ovvero l’unione della Dottrina (la Verità) della Vita Spirituale (la Bontà) e del fascino della Verità Cattolica (la Bellezza). All’interno delle singole tappe vi sono i passaggi, indicati con la numerazione progressiva. 

(73 passaggi)

1

Secondo il calendario liturgico del Novus Ordo la festa di Cristo Re cade nel mese di novembre (raramente in quello di dicembre), per coincidere con l’ultima domenica dell’anno liturgico, prima dunque dell’Avvento. Nel Vetus Ordo, invece, tale Festa cadeva e cade nell’ultima domenica di ottobre. Il Cammino dei Tre Sentieri segue quest’ultimo calendario e così offre in questo periodo una “Tappa” su questo argomento.

La naturalità della società e le sue conseguenze

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Dio ha voluto l’uomo come essere naturalmente sociale, secondo la celebre espressione di Aristotele.

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Da ciò si capisce il perché l’uomo deve raggiungere la salvezza anche attraverso la società.

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Pio XII nel Radiomessaggio di Pentecoste dell’1.6.1941 afferma chiaramente che dalla santità delle strutture politiche può dipendere la salvezza degli uomini: “Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e si insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini, chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita, respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale, o il bacillo morboso e spesso letale dell’errore e della depravazione.”

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Anche Giovanni Paolo II esprime lo stesso concetto nell’enciclica Centesimus annus dell’1.5.1991: “Non si possono (…) ignorare gli innumerevoli condizionamenti, in mezzo ai quali la libertà del singolo uomo si trova ad operare (…).” (III, 25).

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A riguardo un’altra citazione importante è nell’istituzione su Libertà cristiana e liberazione (22.3.1986) della Congregazione per la Dottrina della Fede, al numero 32: “L’uomo appartiene a diverse comunità: familiare, professionale, politica, ed è in seno ad esse che egli deve esercitare la sua libertà responsabile. Un ordine sociale giusto offre all’uomo un aiuto insostituibile per la realizzazione della sua libera personalità. Al contrario, un ordine ingiusto è una minaccia e un ostacolo, che possono compromettere il suo destino.

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Da ciò si capisce perché la questione di Dio non sia solo una questione che riguardi il singolo, ma anche le società. Possiamo senz’altro affermare che Dio non è solo Dio degli uomini, ma anche delle società. Il Credo infatti dice: Dio ha creato le realtà visibili e le realtà invisibili. Ciò vuol dire che Dio ha creato e voluto tutto ciò che vi è di buono, tutto ciò che è nell’ordine naturale e preternaturale.

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Da ciò consegue che anche l’ordine sociale deve essere sottomesso a Dio e deve anche glorificare Dio. Si tratta di una duplice glorificazione: sostanziale e formale.

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Glorificazione sostanziale: la società deve essere giusta.

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Glorificazione formale: una sottomissione della società a Dio che deve essere manifestata anche pubblicamente. Il fatto che la società non sia una realtà che abbia una coscienza individuale non significa nulla. Anche gli animali dipendono da Dio e, pur non avendone consapevolezza, sono tenuti con il loro istintivo comportamento a glorificare Dio.

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Scrive san Pio X nell’enciclica Vehementer dell’11 febbraio 1906: “E’ una tesi assolutamente falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa. Questa opinione si basa infatti sul principio che lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso: ed è assolutamente ingiuriosa verso Dio, poiché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane e conserva nella vita tanto loro che noi, individui isolati. Perciò noi gli dobbiamo non soltanto un culto privato, ma anche un culto sociale e onori pubblici. Inoltre questa tesi è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale. Essa limita infatti l’azione dello Stato alla sola ricerca della prosperità pubblica in questa vita, cioè alla causa prossima delle società politiche; e non si occupa in nessun modo, come di cose estranee, della loro causa più profonda che è la beatitudine eterna, preparata per l’uomo alla fine di questa vita così breve. E pertanto, poiché l’ordine presente delle cose è subordinato alla conquista di quel bene supremo e assoluto, non soltanto il potere civile non dovrebbe ostacolare questa conquista, ma anzi dovrebbe aiutarci a compierla.”

Perché è giusto parlare di Regalità Sociale di Cristo?

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Per capire perché è giusto parlare di Regalità Sociale di Cristo dobbiamo porci una domanda fondamentale: perché Gesù lo si deve considerare Re? Risposta: Gesù è Re per ben tre motivi.

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Primo Motivo: Gesù è Re in quanto Signore dell’universo intero.

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Secondo Motivo: Gesù è Re in quanto ha riscattato l’umanità offrendo la sua vita.

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In merito a questi due motivi, Pio XI, nella Quas primas, enciclica dell’11.12.1925 con la quale si istituì la Festa di Cristo Re, afferma che Cristo è “Re” tanto per diritto nativo, perché è Figlio di Dio, quanto per la sua umanità, ovvero per diritto acquisito, perché ci ha redenti.

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Terzo Motivo: Gesù è Re perché ha la triplice potestà: legislativa, giudiziaria ed esecutiva. Questa regalità, per san Tommaso d’Aquino (1225-1274), è diretta sulle cose spirituali, mentre sulle cose temporali è ugualmente diretta ma non esercitata direttamente. Invece per san Roberto Bellarmino (1542-1621) e Francisco Suarez (1548-1617) è diretta nelle cose spirituali e indiretta in quelle temporali. Insomma, per san Tommaso vi è una plenitudo potestatis (pienezza del potere), cioè potere diretto sia nelle cose spirituali sia in quelle temporali, anche se la Chiesa nelle realtà temporali rinuncia ad un potere diretto. Per Bellarmino e Suarez, invece, la Chiesa esercita un potere diretto in spiritualibus e indiretto in temporalibus.

Alcune obiezioni che si possono ricevere quando si parla di Regalità sociale di Cristo

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La prima obiezione che si può ricevere può essere questa: ma come può essere proponibile, oggi, uno Stato cattolico? E poi: è proprio giusto perseguire questo ideale? La seconda, invece, potrebbe essere questa: come la mettiamo con il principio della libertà religiosa? Può uno Stato cattolico rispettare tale principio?

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Partiamo dalla prima obiezione. Lo Stato cattolico è giusto? Ebbene, qui non dobbiamo fare altro che ripetere ciò che abbiamo detto finora.

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Lo Stato non può essere neutrale data la natura socievole dell’essere umano e quindi tenendo presente che dalla santità delle strutture politiche può dipendere la salvezza degli uomini. Ne abbiamo già parlato.

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Cattolicamente, lo Stato è da considerarsi sul modello dell’antropologia cristiana. Vediamo cosa vuol dire. La concezione cristiana della politica è esito tanto dell’antropologia (concezione riguardante l’uomo) quanto della gnoseologia (concezione riguardante la conoscenza) della filosofia naturale e cristiana. Perché dall’antropologia? Ci sono almeno quattro motivi. 1) Come l’uomo è limitato così anche lo Stato deve riconoscere nella sua ragion d’essere il limite e quindi la necessità di conformarsi ad un criterio di Giustizia e di Legge al di fuori di sé. 2) Come l’uomo non è solo spirito ma anche corpo, così il vivere dell’uomo deve inserirsi all’interno di un’organizzazione sociale e materiale. E la stessa attività politica non figura come qualcosa di negativo, bensì come una necessità nobile e naturale. 3)Come l’uomo non è solo corpo ma anche spirito, così l’attività politica non può essere il perseguimento della semplice felicità terrena ma della felicità tutt’intera, che è quella eterna e il raggiungimento del Bene supremo, che è Dio. 4) Perché l’uomo è unione di spirito e corpo, anche l’organizzazione sociale e statuale deve formalmente e sostanzialmente rispecchiare questa unione. Formalmente, con il dover rendere a Dio anche il culto pubblico; sostanzialmente, con il rispetto e la promozione della Legge di Dio.

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Adesso vediamo perché la concezione cristiana della politica è esito della gnoseologia e della filosofia naturale e cristiana. La conoscenza, secondo la filosofia naturale e cristiana, deve partire dall’osservazione dell’oggetto (realismo filosofico), dunque la politica deve rifuggire qualsiasi pretesa utopica di creazione di nuove società e limitarsi ad organizzarne un unico modello, che è dato dalla Legge Naturale. La conoscenza della filosofia naturale e cristiana riconosce come fondamentale il dato del “senso comune”, che è la constatazione di verità evidenti che, proprio perché talmente evidenti, non hanno bisogno di essere dimostrate. Ebbene, la concezione cristiana della politica esprime tale convinzione soprattutto nell’aspetto pedagogico, allorquando sostiene che l’autorità è tale nel momento in cui sa obbedire.

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Cristo è Re degli uomini ma anche della società: e questo è appunto la Regalità Sociale di Cristo.

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Quando lo Stato si separa dal Cristianesimo, anche la società finisce col separarsi dal Cristianesimo. I fatti oggi lo dimostrano ampiamente.

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La legittimità dello Stato cattolico è affermato tanto dai Padri, quanto dai Dottori quanto dal Magistero. Si tratta di un insegnamento ininterrotto. La Tappa in tal senso rimanda ad un approfondimento individuale.

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Passiamo alla seconda obiezione. Che dire del principio della libertà religiosa? Ci sono due modi d’intendere tale principio (o perlomeno ce ne dovrebbero essere due). Il primo è scorretto e va contro l’insegnamento perenne della Chiesa; il secondo si fonda sulla dignità della persona umana e pertanto è autenticamente cattolico; ed è meglio definirlo della tolleranza religiosa.

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Il primo modo d’intendere il principio della libertà religiosa afferma che ogni religione (vera o falsa che sia, non importa), così come ogni appartenente ad una determinata religione (vera o falsa che sia, non importa), avrebbero il diritto di esistere (per quanto riguarda la religione) e di professare pubblicamente il credo religioso (per quanto riguarda l’appartenente). Si tratta né più né meno di un vero e proprio diritto all’errore.

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Ora, come abbiamo già detto, tale modo d’intendere il principio della libertà religiosa è inaccettabile. Pio IX: in Quanta cura e nel Syllabus (1864) afferma che la libertà religiosa in foro esterno “è contraria alla dottrina della Sacra Scrittura, della Chiesa e dei Santi padri ecclesiastici” e che “lo Stato ha il dovere di reprimere i violatori della Religione cattolica con pene specifiche.” Pio XII, nel Discorso ai Giuristi Cattolici Italiani (6.12.1953), insegna: “ciò che non risponde a verità non ha oggettivamente nessun diritto né all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione”.

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Ma c’è un altro modo d’intendere correttamente il principio della libertà religiosa. In questo caso, come abbiamo già detto, sarebbe più opportuno parlare di principio della tolleranza religiosa. E’ ovvio che cattolicamente non si può mai accettare di forzare la coscienza individuale all’accettazione del vero. A tal riguardo il famoso gesuita padre Messineo (1897-1978) con poche e semplici parole ci fa capire come i due imperativi (non riconoscere alcun diritto all’errore e il dovuto rispetto della libertà della dignità personale) si possano coniugare. Egli scrive: “Noi vorremmo domandare ai sostenitori dei diritti della coscienza soggettiva che cosa risponderebbero a un amico che si presentasse in casa loro e li invitasse ad uscire, perché ha la certezza soggettiva che quella casa gli appartenga. Indubbiamente lo consegnerebbero in mano alla polizia, se non addirittura ai custodi del manicomio. Come si spiega questo comportamento se la coscienza soggettiva (anche se erronea) ha il diritto di farsi valere? Si spiega perfettamente dalla natura delle relazioni sociali, le quali si fondano nel diritto obiettivo, dinanzi al quale deve battere in ritirata qualsiasi personale persuasione.” Poi aggiunge: (…) l’accettazione della verità deve essere spontanea: la forza o la costrizione possono produrre un conformismo esterno, non mai l’adesione spirituale a una dottrina (…). Ne deriva allora che colui il quale si trova nell’errore, specialmente se in buona fede, ha il diritto di non soffrire violenza esterna o pressione morale, dirette a fargli cambiare opinione o professione religiosa (…). Diritto di libertà interiore, che esclude categoricamente ogni tirannia esercitata sulle coscienze, così nel campo politico come nel campo religioso, ma diritto non dell’errore, bensì della persona umana, nella sua dignità di essere razionale, nella quale si trova saldamente.” (La libera ricerca della verità, in La Civiltà Cattolica, IV (1950), p.57).

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Dunque, occorre fare una differenza tra diritto oggettivo dell’errore e diritto soggettivo alla scelta.

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Rimane ancora aperta una questione. Se le cose stanno in questi termini, lo Stato cattolico implicherebbe anche l’impedimento completo di ogni manifestazione pubblica di religiosità erronee? Non è detto. In vista del bene della Chiesa e dello Stato, lo Stato cattolico può anche deliberare leggi che si ispirino a tolleranza nei confronti delle false religioni. Ciò può accadere per evitare mali peggiori come lo scandalo o il dissidio civile. Ci dice Pio XII sempre nel suo discorso ai partecipanti della Unione Giuristi Cattolici Italiani (6.12.1953): “Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può essere un’ultima norma di azione. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore, il non impedire l’errore per promuovere un bene maggiore. Con questo sono chiariti i due princìpi, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l’atteggiamento del giurista, dell’uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale dal contenuto sopra indicato (…) Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né alla esistenza, né alla propaganda, né all’azione (è ciò che abbiamo citato prima). Secondo: il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell’interesse di un bene superiore e più vasto.”

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Un’ultima precisazione su questo punto. Ci riferiamo alla falsa obiezione della necessità contestuale della libertà religiosa, da intendere ovviamente come diritto di ogni religione indipendentemente se sia vera o meno. Alcuni affermano che, oggi come oggi, la Chiesa non può che parlare positivamente della libertà religiosa per non trovarsi spiazzata in casi di evidente persecuzione contro i cristiani. In realtà, un tale argomento non regge e può essere pericoloso. Citiamo delle interessanti parole del grande teologo padre Reginald Garrigou-Lagrange (1877-1964): “Possiamo fare (…) della libertà religiosa un argomento ‘ad hominem’ contro coloro che, pur proclamando la libertà di religione, perseguitano la Chiesa (stati laici e socialisti), o ostacolano il suo culto, direttamente o indirettamente (stati comunisti, islamici, ecc.). Questo argomento ‘ad hominem’ è giusto e la Chiesa non lo respinge, usandolo per difendere efficacemente il proprio diritto alla libertà. Ma non ne consegue che la libertà religiosa, considerata in se stessa, sia per i cattolici sostenibile in linea di principio, perché è intrinsecamente assurdo ed empio che la verità e l’errore debbano avere gli stessi diritti.”

L’alternativa alla laicità non è il clericalismo

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Rifiutando il concetto di “laicità” (e a maggior ragione quello di “laicismo”) a favore della Regalità sociale di Cristo che implica come effetto il cercare di difendere (prima) e di realizzare (ora) lo Stato cattolico, potrebbe generarsi la tentazione di auspicare una sorta di “clericalismo”. In realtà ciò sarebbe sbagliato. Pochi riflettono sul fatto che il clericalismo è venuto fuori proprio come effetto della laicità.

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Facciamo un esempio per spiegarci meglio. Prendiamo in considerazione i secoli del basso-medioevo. Ebbene, quelli furono secoli non solo molto cattolici ma tutti orientanti alla realizzazione della Regalità sociale di Cristo, eppure furono secoli tutt’altro che “clericali”. Anzi, possiamo dire che tale salvaguardia della Regalità sociale di Cristo scaturiva proprio dal fatto che il clericalismo ancora non si era affacciato. Il laico medievale, infatti, sentiva di dover vivere la sua religiosità integralmente e quindi di dover santificare le realtà temporali in cui era chiamato a vivere. Con il tramonto del medioevo e quindi con l’inizio della modernità, seppur gradatamente, il laico cristiano ha iniziato a delegare sempre più al sacerdote e al religioso la testimonianza cristiana e il vivere integralmente la Fede. Pertanto, la società, nel corso della modernità, non solo si è sempre più laicizzata, ma –proprio a causa di ciò- anche il vivere il Cristianesimo si è sempre più clericalizzato.

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Fino ad arrivare al paradosso dei nostri giorni per cui si rifiuta che la Chiesa possa “presidiare” la politica, indicando alla politica stessa gli orientamenti fondamentali per operare, ma poi finisce con l’immischiarsi nelle specifiche faccende politiche. Da parte di un certo progressismo cattolico si critica la Chiesa che interviene –per esempio- affermando che non si debba votare un politico che si dichiara favorevole all’aborto o ai matrimoni gay; ma poi si legittima (anzi: si pretende) che la Chiesa dica la sua su questioni tecniche tipo la salvaguardia dell’ambiente o altro. E’ paradossale che per un certo progressismo cattolico, che ha sempre parlato di pneumaticità della Chiesa, il modello del sacerdote non sia più il pastore che debba soprattutto donare la Grazia di Dio e che quindi indicare all’uomo la méta del Cielo, bensì il “tribuno” pronto ad essere in prima fila in qualsiasi manifestazione sociale.

L’utilità della Regalità Sociale di Cristo e quindi le nefaste conseguenze del suo non riconoscimento

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Per capire l’utilità della Regalità Sociale di Cristo bisogna tener presente che cosa è scaturito dalla sua negazione: Anteposizione della libertà alla Verità, Positivismo giuridico ed Economicismo. Il tutto è riducibile alla tecnocrazia.

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A questo riguardo va sfatato un mito, quello di credere che alla morte delle ideologie sia succeduto il trionfo tecnocratico. Non è così: la tecnocrazia è l’ultimo passaggio dell’evoluzione della lettura ideologica della realtà. La tecnocrazia viene partorita sì dalla postmodernità, ma è già concepita dalla modernità. Machiavelli (1469-1527) che cosa fa se non ridurre la politica a mera tecnica di potere? In tutta la modernità la politica si riduce a tecnica di potere, la quale a sua volta è effetto di una visione meccanicistica della vita dell’uomo.

Il grande significato della devozione al Gesù Bambino di Praga

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Nella Spagna del XVI secolo iniziò a diffondersi la devozione alla Regalità di Gesù Bambino. Da poco il territorio era stato liberato dal dominio musulmano e la Spagna era nel massimo del suo splendore. Fu allora che cominciarono a diffondersi delle raffigurazioni di Gesù non più adagiato nella culla, ma in piedi, su un trono, vestito con abiti bellissimi e con la mano benedicente.

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In questa Spagna, detta del “secolo d’oro”, visse ed operò Santa Teresa d’Avila (1515-1582) che, per il suo grande amore verso l’umanità di Cristo, sviluppò la devozione carmelitana a Gesù Bambino. Ogni qual volta fondava un monastero, voleva che una statuetta del Bambino Gesù venisse messa in venerazione e che avesse pose e abiti diversi. Erano tutti ninos bellissimi, ai quali l’affetto delle monache dava una soprannome. Tra queste vi era una soprannominata El Fundador, vestita da re, con la mano destra benedicente e la sinistra nell’atto di sostenere il mondo. Dai Carmeli della Spagna la devozione si diffuse in tutti i Carmeli dell’Europa.

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La storia di quello che poi sarebbe stato il miracoloso Gesù Bambino di Praga inizia nel 1628. L’allora priore del convento dei carmelitani scalzi della città boema, padre Gianluigi dell’Assunta, preoccupato per l’estrema povertà della casa, ebbe un’ispirazione: incaricò i suoi confratelli di cercare una statua del Bambino Gesù per affidare a lui le sorti del convento.

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La statua venne offerta dalla principessa Polissena di Lobkowicz, che già si era distinta come benefattrice dei carmelitani di Praga. Raffigurava un bellissimo Gesù Bambino in abiti regali, ritto in piedi (dunque in quella nuova posizione diffusasi nella Spagna del XVI secolo), con il mondo nella mano sinistra e la destra in atto benedicente. Per ordine del priore, fu portata in noviziato e collocata sull’altare dell’oratorio.

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I Carmelitani Scalzi erano arrivati a Praga dopo la celebre vittoria cattolica della Battaglia della Montagna Bianca (8 novembre del 1620). Si era nella cosiddetta Guerra dei Trent’anni e l’esercito cattolico, fedele all’Imperatore, aveva sconfitto l’esercito ribelle, fedele invece al Principe Elettore del Palatinato, il calvinista Federico V.

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Per quella vittoria l’imperatore Ferdinando II aveva un debito di grande riconoscenza con l’Ordine del Carmelo, perché era stato proprio il generale dei carmelitani scalzi, il venerabile padre Domenico di Gesù Maria, ad esortare i suoi soldati alla vittoria contro i protestanti. A seguito di quella vittoria, attribuita all’aiuto della Vergine Maria, nel 1624 i Carmelitani furono chiamati a Praga e venne loro assegnata una chiesa ribattezzata appunto “Santa Maria della Vittoria”.

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Ma nel 1631 il Principe Elettore della Sassonia iniziò l’assedio della città. Molti fuggirono. Il priore del convento, per prudenza, fece partire i novizi ed anche colui che sarebbe poi diventato il grande apostolo della devozione al Gesù Bambino di Praga, padre Cirillo della Madre di Dio.

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Passò poco tempo e Praga capitolò. I soldati protestanti saccheggiarono chiese e conventi ed incarcerarono anche i pochi carmelitani rimasti. Quando videro nell’oratorio la statuetta di Gesù Bambino Re, scoppiarono in risate blasfeme e urlarono: “Ecco il pupazzo dei papisti!” Uno di loro, per disprezzo, gli mozzò le mani con la spada e lo buttò dietro l’altare. Così il Santo Bambino cadde fra i ruderi della Chiesa di Santa Maria delle Vittoria, dove rimase per lungo tempo, dimenticato in mezzo alle immondizie.

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La Pace di Praga, firmata nel 1634, consentì il ritorno dei carmelitani nel loro convento. Ma nessuno ormai si ricordava più della statuetta. Nel 1637 ritornò anche padre Cirillo della Madre di Dio. La guerra ancora non era terminata. Gli Svedesi ruppero gli accordi e assediarono nuovamente Praga. Intanto, padre Cirillo cercava la statuetta e grande fu la sua gioia quando riuscì a ritrovarla. Tutti i frati del convento poterono pregare con fervore Gesù Bambino e Praga uscì indenne dalla distruzione protestante. Anche il convento, dopo due anni difficili in cui era mancata la benedizione del Santo Bambino, godette nuovamente dell’aiuto dei benefattori. Da allora è continuata e si è diffusa in tutto il mondo la devozione al Gesù Bambino di Praga.

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Ma adesso facciamo qualche riflessione per capire perché ne stiamo parlando. Abbiamo detto che fino al XVI secolo la devozione a Gesù Bambino si indirizzava prevalentemente o addirittura esclusivamente al Gesù Bambino nella culla, al momento della Natività. Cioè il Gesù Bambino della tenerezza, della debolezza e della “piccolezza”. A partire, invece, da questo secolo non c’è solo il Gesù Bambino che giace nella culla, ma anche il Gesù Bambino Re, con la corona sul capo e con il mondo nella mano. Dunque, non solo il Gesù Bambino nella sua naturale collocazione di infante (la culla), ma anche il Gesù Bambino che, in quanto Dio, è Re dell’universo intero. E’ la convinzione che la signoria di Cristo è anche quella della tenerezza e della delicatezza, tratti tipici dell’infanzia.

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Vediamo adesso quali sono i fondamenti teologici alla base di questa devozione. Il perché, cioè, non è sbagliato considerare la Regalità di Cristo come espressione dell’intera vita di Gesù, e quindi anche della sua infanzia.

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La teologia cristologica ci dice che l’Incarnazione è avvenuta attraverso la cosiddetta unione ipostatica: un unico soggetto (divino) in una duplice natura (umana e divina). Ciò comporta due conseguenze: a)Ogni azione (anche la più banale) compiuta dal Cristo ha avuto un valore infinito. Il valore di un’azione, infatti, è dato dalla dignità del soggetto che la compie. Dal momento che il soggetto del Cristo è divino, tutte le sue azioni hanno avuto un valore divino, cioè infinito. b)A vivere l’esperienza è colui che consapevolmente la vive. L’esperienza è vissuta dal soggetto. Quindi, ogni avvenimento che Gesù ha vissuto, l’ha vissuto anche come Dio. L’Incarnazione ci dice che Dio ha fatto esperienza di tutte le fasi della vita umana, perché l’intelletto divino non ha bisogno della maturazione del corpo. Il Verbo incarnato è stato consapevole di se stesso (dunque della propria divinità) sin dal concepimento.

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Questo significa che l’Incarnazione segna una peculiarità tutta cristiana. Cioè: Dio rimane tale anche quando è veramente bambino. Il che significa che la sua Regalità è caratterizzata anche dalla tenerezza della sua infanzia.

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La devozione al Gesù Bambino di Praga è emblematica per capire la concezione cristiana della sovranità. Per almeno quattro motivi.

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1.La devozione al Gesù Bambino di Praga conferma quanto la sovranità debba essere vissuta come testimonianza di una sudditanza. L’autorità deve avere una sua persuasività e per questo deve praticare l’obbedienza: non si può pretendere obbedienza se non si pratica l’obbedienza. Un tempo, l’incoronazione per diritto divino voleva significare che il Re, prima di iniziare ad esserlo, riconosceva di essere suddito nei confronti di un altro Re, molto più importante di lui. Solo chi si fa obbediente, può pretendere obbedienza. Il Gesù Bambino incoronato insegna che l’esercizio della regalità è anche farsi obbediente alla Verità; come un bambino che si fa obbediente.  

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2.La devozione al Gesù Bambino di Praga conferma quanto la sovranità debba essere vissuta come manifestazione di servizio e di amore, e non di potere. Il Cristianesimo insegna che l’autorità deve intendersi non come manifestazione di potere, ma di servizio. Comanda chi sa sacrificarsi, chi è disposto ad immolarsi per i suoi sudditi. Il capo è colui che va davanti agli eserciti, chi rischia di più. Più alta è l’autorità, più alta è la responsabilità. Il Dio che, incarnandosi, vive veramente l’esperienza dell’infanzia e che regna conservando anche la sua infanzia, è un Dio che serve. E’ un Dio che si fa piccolo per mettersi al servizio di tutti.

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3.La devozione al Gesù Bambino di Praga conferma quanto la sovranità debba essere vissuta come abbandono filiale a Dio. Il Cristianesimo, riconoscendo l’autorità anche come esercizio di obbedienza nei confronti di Dio, afferma che chi comanda deve rimettere in Dio la propria autorità. San Luigi IX (1215-1270), il grande Re di Francia, veniva accusato di essere un “bigotto dal collo corto” perché passava più tempo a pregare in cappella che non a governare i sudditi. Ma lui era solito rispondere: “Mi si addebita come un crimine la mia vocazione, ma nessuno direbbe una parola di biasimo se tutto quel tempo lo spendessi nella caccia o nel gioco.” E non è un caso che il suo regno fu uno dei più luminosi della storia di Francia.

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4.La devozione al Gesù Bambino di Praga conferma quanto la sovranità debba essere vissuta nel lasciarsi guidare dallo stupore. La regalità di Cristo non è solo la regalità del Cristo adulto, ma anche di quello bambino. Ora, una delle caratteristiche dei piccoli è proprio quella di lasciarsi stupire dal reale, di riconoscere la meraviglia dell’altro, di ciò che si manifesta ai propri occhi, segno di una grandezza immensa che richiama la maestà del divino. Quindi, il Gesù Bambino che regna vuole insegnare che lo stupore dell’infanzia non solo non è un impedimento all’esercizio della sovranità, ma addirittura diviene una necessità, un qualcosa di cui non si può fare a meno. Ed è da questo stupore che sgorga la sensibilità.

La bellezza della Regalità Sociale di Cristo, ovvero: l’uomo può “toccare” le stelle

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Cosa significa per la vita dell’uomo la Regalità sociale di Cristo? Ha questa verità delle ripercussioni sul piano del vivere? Vediamo.

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Leggiamo una bella frase di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936): “L’uomo non è un pallone che vola verso il cielo né una talpa intenta solo a scavare nella terra, ma è simile ad un albero, le cui radici sono nutrite dalla terra, mentre le cime più alte sembrano quasi toccare le stelle.”

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Stando a queste belle parole, l’uomo non è un pallone pieno di elio (quelli che si vendono alle feste patronali per far felici i bambini), uno di quei palloni che salgono-salgono allontanandosi quanto più possibile dalla terra; l’uomo non è nemmeno una talpa, semicieca, intenta a scavare per trovare solo nella nuda ed umida terra il suo sollievo. No. L’uomo, secondo Chesterton, non è questo. Almeno l’uomo che vuole essere davvero uomo. Questi è piuttosto un albero le cui radici sono nutrite dalla terra mentre la cima sembra quasi toccare le stelle.

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Lo scrittore inglese è come se vedesse una sorta di “longilineità” nell’uomo. L’uomo è altissimo. “Altissimo” perché da una parte tocca la terra, dall’altra “tocca” le stelle.

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Non sappiamo se Chesterton ci abbia pensato (può darsi di no), ma ci piace pensare che lo scrittore inglese abbia non a caso utilizzato il termine “stelle” piuttosto che il termine “cielo”. Il significato, infatti, qualora avesse utilizzato il termine “cielo”, sarebbe potuto essere totalmente diverso se si pensa al racconto biblico della Torre di Babele. Perché quella famosa Torre fu distrutta da Dio? Perché i Babilonesi volevano edificare una costruzione la cui cima “toccasse” il cielo. “Toccare il cielo” vuol dire avere la pretesa di eguagliare Dio, di sostituirsi a Lui, di fare di se stessi il proprio Dio.

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“Toccare le stelle”, invece, significa un’altra cosa. Le stelle sono in alto, sono vicine al cielo, ma non sono il cielo così come tradizionalmente lo s’intende. “Toccare le stelle” vuol dire tendere verso Dio, anelare al suo incontro, orientarsi verso di Lui sapendo che, senza di Lui, non si può vivere … non nullificarlo pretendendo di prendere illusoriamente il suo posto.

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E allora Chesterton vuol dire questo: da una parte l’uomo è preoccupato da quelli che sono i problemi di tutti i giorni; dall’altra deve trattare questi problemi nella consapevolezza che egli è fatto soprattutto per il Cielo. E’ fatto per guardare in alto.

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Una piccola riflessione sul “guardare in alto”. L’uomo è l’unico “animale” (espressione che a noi ovviamente non piace) che fa funzionare completamente la rotazione cervicale da permettergli di guardare bene in alto, di porre il suo volto orizzontalmente al cielo per poterlo osservare bene. Il cane, la scimmia -per esempio- non fanno questo movimento.

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Fin qui la frase di Chesterton. Ora prendiamo in considerazione altre due frasi famose, certamente più famose di quella dell’ideatore di padre Brown. Sono due frasi che hanno un punto in comune con quella già citata: il riferimento al cielo. La prima è di William Shakespeare (1564-1616): “Ci sono più cose in cielo e in terra che non nella tua filosofia, o Orazio.” La seconda è di Immanuel Kant (1724-1804): “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.”

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La frase di Shakespeare ci piace molto. Andrebbe spedita a tutti i professori di filosofia per capire cosa davvero sia la filosofia, ovvero non il tentativo razionalistico di includere la complessità della reale nel proprio pensiero, bensì lo stupore della conoscenza possibile di un reale il cui mistero sovrasta di gran misura le capacità comprensive dell’uomo.

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La frase di Kant, invece, non ci piace affatto. E’ pericolosa. Indubbiamente nel filosofo tedesco vi era anche – a livello intenzionale – l’idea di esprimere un collegamento tra l’uomo e la grandezza e la bellezza del cielo. Voleva, a livello intenzionale, collegare la coscienza individuale con l’infinito del cielo; ma –appunto- solo a livello intenzionale.

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In realtà la celebre frase di Kant dice una cosa ben precisa: la coscienza morale è completamente svincolata dalla dimensione dell’infinito, perché questa –secondo Kant- non può partire da presupposti metafisici. Il fondamento morale non può essere più nel “cielo stellato”, intendendo per “cielo stellato” la prospettiva divina e quindi Dio come “causa prima” secondo l’impostazione aristotelica. Nella frase di Kant c’è una netta separazione. Kant recide totalmente. “Cielo stellato” da una parte e “coscienza morale” dall’altra: realtà completamente separate.

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Shakespeare invece prende le distanze dalla frase di Kant (“prende le distanze” ovviamente in un senso “fantastorico” perché il drammaturgo inglese è vissuto ben due secoli prima del filosofo di Konisberg). Egli, infatti, dice che la verità delle cose non sta nel pensiero umano. Ora, se la verità delle cose non sta nel pensiero umano, vuol dire che la legge morale sta al di fuori della coscienza morale. La coscienza è il “luogo” in cui riconoscere una legge che è esterna, non il “luogo-fondamento” di tale legge.

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Torniamo alla frase di Chesterton, cioè la frase da cui siamo partiti. L’uomo di Chesterton è come se idealmente riprendesse le parole di Shakespeare. Dal momento che la verità non sta nell’uomo, bensì nel “cielo e nella terra”, il vero uomo deve essere nel “cielo e nella terra”. Il vero uomo non deve essere né una “palla” sganciata dalla terra, né tantomeno una talpa talmente immersa nella terra da non pensare al cielo. Il vero uomo deve “distendersi”, deve “allungarsi” in maniera tale da avere i piedi ben piantati a terra, come le radici degli alberi maestosi, ma anche con la cima che è così alta che sembra “toccare” le stelle.

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Qui non si tratta né di separare il cielo dalla terra, che sarebbe poi la prospettiva kantiana che è un’ulteriore conferma del laicismo, che già in Cartesio aveva trovato un suo importante propagatore. Infatti, il laicismo è considerare la vita senza fare spazio a Dio. Si tratta piuttosto di capire che il cielo e la terra sono al di sopra di ogni intellezione umana (Shakespeare), per poi capire che l’uomo, il vero uomo, deve “allungarsi” per conservare il radicamento nella terra, “toccando” però le stelle del cielo. Unendo, cioè, il cielo e la terra, compenetrando il naturale nel soprannaturale e viceversa.

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Questo solo l’uomo lo può fare. Nessun animale ne sarebbe capace. Solo l’uomo, indipendentemente dalla sua altezza fisica, può diventare un gigante, come –appunto- quegli alberi giganteschi che hanno radici profondissime e cime che “accarezzano” le stelle.

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Non è un caso che il tempo in cui maggiormente si è creduto alla Regalità Sociale di Cristo abbia partorito la figura della Cattedrale gotica: una massa enorme di marmo radicata a terra, ma tutta orientata verso il Cielo. Una figura che esprime un importante ma vero paradosso: la pesantezza emblematica (qual è quella del marmo) che diviene tanto leggera da levitare verso il Cielo. Un levitare verso il Cielo che non nega la terra, un radicamento nella terra che non nega il Cielo, ma che –anzi- trova la sua ragion d’essere nel Cielo.

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La Regalità Sociale di Cristo non è né riduzione alla terra né astrazione spiritualista e settaria di negazione totale della terra, bensì convinzione che la terra possa già vivere il Cielo.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

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2 Comments on "TAPPA – La bellezza della Regalità Sociale di Cristo"

  1. Molte grazie per questo importantissimo articolo!

    • Ringraziamo lei che ci segue.
      In comunione di preghiera.
      Dio è verità, Bontà e Bellezza
      Il Cammino dei Tre Sentieri

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