LA TAPPA: La bellezza de Il Raduno… per capire perché la vita è un pellegrinaggio

Le tappe trattano argomenti importanti e perenni per la formazione cristiana attraverso il metodo che Il Cammino dei Tre Sentieri, ovvero l’unione della Dottrina (la Verità) della Vita Spirituale (la Bontà) e del fascino della Verità Cattolica (la Bellezza). All’interno delle singole tappe vi sono ipassaggi, indicati con la numerazione progressiva. 

(83 passaggi)

 L’uomo e il limite

1

Cari pellegrini, l’uomo non solo vive, ma sa di vivere; dunque, anche nei momenti in cui non soffre, sa di dover soffrire; e anche nei momenti in cui la morte è lontana temporalmente, sa di dover morire.

2

Da ciò si capisce che l’uomo non può prescindere dalle domande di senso, cioè dalle domande sul senso della vita, le cosiddette domande ultime: Perché vivo? Da dove vengo? Perché esiste la sofferenza? Perché la morte?.. L’uomo anela istintivamente alla possibilità di dare una risposta a queste domande.

3

Scrive Blaise Pascal (1623-1662): “Bruciamo dal desiderio di trovare un fondamento solido e una base ultima e duratura per costruirvi sopra una torre che si innalzi all’infinito, ma il fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi.” (Pensieri, fr.72)

4

Attenzione alle parole di Pascal, che non sono affatto poste a caso. Egli non parla di un semplice desiderio, bensì di un desiderio così forte che arriva a dominare l’esistere umano, a “bruciare”: “…bruciamo dal desiderio…” E questo desiderio non è l’avere di più, non è l’acquisire maggiore successo, bensì il desiderio del fondamento: “…bruciamo dal desiderio di un fondamento solido”.

5

Un “fondamento solido” che faccia da base per costruire una torre che s’innalzi verso l’infinito, cioè che faccia incontrare all’uomo la soluzione del suo esistere.

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Ma -constata Pascal- se questo fondamento poggia sulla terra non è allora destinato a resistere, perché la terra è fragile, incapace a “fondare”: “…ma il fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi”. Il fondamento –ci dice Pascal- deve invece poggiare su qualcos’altro, allora sì che può essere capace di fare da base ad una torre che s’innalzi verso l’infinito. 

L’universalità della condizione umana

7

Nel corso della storia, l’uomo cambia nei suoi elementi accidentali. Cambia il proprio modo di comportarsi, cambia alcuni giudizi sulle cose così come contestualmente si presentano, cambia anche il modo di “arricchire” e di migliorare la propria vita. Ma nel divenire storico l’uomo non cambia la propria sostanza. I suoi problemi fondamentali sono sempre gli stessi.

8

Ecco perché ciò che ha scritto un Sofocle 2500 anni fa, o un Dante 700 anni fa o un Leopardi 200 anni fa ci interessano ancora.

9

Da un certo punto di vista possiamo dire che tanto Leopardi quanto Dante e quanto Sofocle, che pur non avevano lo smarthphone, che pur non beneficiavano del nostro progresso tecnologico, vivevano però consapevolmente i nostri stessi problemi. Ed ecco perché la loro arte è come se parlasse di noi …è come se parlasse di me.

10

Un esempio tra innumerevoli che possono essere fatti è l’Antigone di Sofocle (496-406 a.C.). Ovvero una tragedia che parla di quella universale condizione di chi avverte di dover ubbidire a ciò che è giusto e per questo è costretto a pagare. L’insopportazione della pena, però, è data dalla mancanza di un senso che motivi a fondo il rispetto di ciò che è giusto adempiere.

11

Si narra di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che lottando tra loro per il potere, si sono uccisi a vicenda a duello. Lo zio Creonte, successore sul trono di Tebe, ordina che Polinice rimanga insepolto perché traditore della patria nei confronti della quale avrebbe fatto guerra con aiuti esterni. Antigone, sorella di Polinice, non intende però obbedire: decide di seppellire il fratello per non violare la legge degli dèi che consente la sepoltura dei traditori purché oltre i confini della patria. Ma per questa sua decisione Antigone viene condannata a essere sepolta viva in una caverna buia, nonostante le richieste che il suo fidanzato Emone, figlio dello stesso Creonte, rivolge al re. Antigone allora (ecco la disperazione quando è assente un senso vero che motivi il rispetto di ciò che è giusto adempiere) si suiciderà e lo stesso farà Emone.

12

Sofocle così descrive la scena in cui Antigone sta per essere condotta nella caverna buia: “Mi vedete, gente di questa mia antica terra? Gli ultimi passi allineo, l’ultima scintilla di sole mi abbaglia. Poi il buio. Il grande sonno. Il nulla mi vuole. E sono ancora viva”.

13

Attenzione a questa espressione che abbiamo appositamente riprodotta in grassetto: “Il nulla mi vuole. E sono ancora viva”. Non si può negare che qui c’è un grido universale che è di tutti i tempi. E’ il grido dell’uomo che si chiede che logica può avere un destino di nullificazione, cioè l’andare verso il nulla, se poi constatiamo continuamente in noi la capacità di governare il tempo, di costruire cioè affezioni che sanno andare oltre la pura dimensione temporale e che chiedono e invocano una permanenza destinata a non dissolversi.

L’uomo convive con la morte

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L’uomo è l’unico essere vivente che convive coscientemente con la morte; e ciò, in un certo qual modo lo determina; lo rende consapevole di un timore attraverso cui si sostanzia il suo essere, ma soprattutto il suo desiderio di trascendere la fine. La morte costantemente lo interpella.

15

Leopardi (1798-1837) nel Canto del gallo silvestre (Operette morali) scrive: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono”.

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Insomma, Leopardi dice chiaramente che la morte è il tema dominante dell’esistere. Il poeta lo nasconde con un “pare”, ma si tratta di un “pare” debole che sta lì a significare quanto la morte costituisca una sorta di “principio di definizione” dell’esistere umano: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obietto il morire”. E poi Leopardi, non avendo risposta, si lancia verso un nichilismo “fondativo”, l’essere nascerebbe dal nulla: “…perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono”. 

Il “dramma” della condizione umana

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L’uomo, dunque, vive un’originale condizione che gli è peculiare. E’ una condizione drammatica: la constatazione della grandezza delle “domande” che porta nel cuore e la piccolezza delle “risposte” che offre la sua precaria vita terrena. Qui si manifesta l’inganno che spesso spinge l’uomo ad affidarsi all’illusione di poter trovare la Risposta nella sua vita e nelle sue cose.

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 Il filosofo Kierkegaard (1813-1855) definisce la disperazione una “malattia mortale”, essa coinvolge i rapporti del singolo con se stesso: se l’io decide di realizzarsi fino in fondo, si scontra con la propria limitatezza; se invece cerca di essere qualcosa di diverso, va verso un’impossibilità ancora più grande. In tutte e due le possibilità vi è il fallimento. Non c’è esito positivo se non nella fede, cioè se non nell’aprirsi a Dio come soluzione.

19

 Ed ecco perché è illusorio convincersi di poter trovare soddisfazione in se stessi; e quindi che passeggere felicità possano trasformarsi in vera gioia.

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 Leggiamo questi versi del poeta spagnolo Jorge Guillen (1893-1984), sono tratti dalla raccolta Guerra e pace: “ Palpita con un battito crescente la magnolia. / I tetti vanno cedendo al verde, tanto nobile, sera e uccelli. / Tra foglie, mormorii d’invisibile inquietudine implorano ombra. / Palpita l’albero, ormai quieto, col battito del suo cuore velato. / Che accade dunque? / Un al di là si crea con tenerezza e notte.”

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In questi versi si coglie bene come il poeta abbia voluto far seguire delle immagini inquiete all’invito alla gioia: il vento che agita l’albero è cosa ben diversa da un’immagine serena. La gioia che l’uomo può sperimentare nella sua vita è una gioia inquieta, che si esprime in un’inconscia paura di smarrirla. Senza una prospettiva ulteriore, questa gioia è destinata a perdere qualsiasi speranza.

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Insomma, questa “gioia”, cantata dal Guillen, è paragonabile a quella illusoria dell’uomo contemporaneo, che si illude di essere contento, ma che invece avverte dentro di sé un senso di profondo smarrimento. Proprio le parole “…un al di là si crea con tenerezza e notte” significano che l’unica speranza perché la gioia sia vera è che debba proiettarsi in una prospettiva ulteriore. 

L’Attesa 

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Il costitutivo desiderio da parte dell’uomo di rispondere alle “domande di senso” costringe l’uomo in una universale dimensione di “attesa”.

24

In ogni cosa che fa, l’uomo vive già nella dimensione del “dopo”. A differenza dell’animale che è solo collocato, per giunta senza consapevolezza, nel “qui e ora”, l’uomo invece in ogni azione scorge sempre l’ulteriorità temporale, cioè ciò che non solo vi è dopo, ma che accadrà dopo.

25

Il poeta Cesare Pavese (1908-1950) scrive nel suo celebre Diario:Che cosa tremenda è pensare che nulla a noi sia dovuto. / Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa? / Ma allora perché attendiamo?”

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Sant’Agostino (354-430) lo dice molto bene. Se l’uomo entra in se stesso, capisce ciò di cui ha davvero bisogno e non si lascia ingannare da illusioni effimere, perché nella sua interiorità fa esperienza di un eterno presente. Capisce che solo lui, come uomo, può conservare il passato nel ricordo e anticipare il futuro nel progetto; e in questo modo si rende conto che nella sua anima vive, seppur in maniera infinitamente inferiore, quello stato che è solo di Dio: appunto l’eterno presente.

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Scrive sant’Agostino nelle Confessioni: “(…) come fa a consumarsi il futuro che ancora non è, o me fa a crescere il passato che ormai non è più, se non è la mente a far ciò per mezzo di tre atti che sono in lei? Invero, ella aspetta e sta attenta e ricorda, di guisa che ciò che ella aspetta, attraverso ciò cui essa attende, passa in ciò che ricorda. Chi dunque vorrà negare che il futuro ancora non sia? Ma, già è nella mente l’aspettazione del futuro. E così, chi mai negherà che il passato non sia più? Ma, nella mente v’è ancora il ricordo del passato. Infine, chi nega che il presente sia privo d’estensione, una volta che passa via in un punto? Ma rimane l’attenzione, per la quale s’avvia al non essere ciò che or ora sarà. Il tempo, dunque, è una distensione dell’animo.”

Il tempo vissuto nella dimensione dell’attesa diventa “immagine” e “prezzo” per l’eternità

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Già la ragione (di per sé non occorre la Fede che ovviamente dà conferma alla ragione) attesta che il tempo vissuto nella dimensione dell’attesa diventa apertura all’eternità.

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E infatti Diogene Laerzio (180-240), nel suo Vite dei filosofi, ci ricorda che Platone (428-348 a.C.) affermava che “…il tempo è l’immagine dell’eternità”.

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Platone certamente non utilizzava parole a caso ed è proprio la parola “immagine” ad essere significativa. L’immagine è una rappresentazione statica che descrive in un momento e in un particolare ciò che è di per sé al di là del singolo momento e dei singoli particolari. Platone qui utilizza un linguaggio paradossale ma vero. Il tempo è dinamico, l’eternità no, ma lui cambia il rapporto: è il tempo a divenire un frammento statico rispetto alla definitività e alla continua novità dell’eternità.

31

Ma se il tempo è “immagine dell’eternità”, esso è anche prezzo dell’eternità, nel senso che il tempo può aver senso solo come esito dell’eternità, solo l’eternità può dargli un significato e una “ragione”.

32

Il predicatore gesuita Louis Bourdaloue (1632-1704) scrive nei suoi Retraites spirituelles: “Non c’è nulla di più prezioso del tempo, perché è il prezzo dell’eternità.”

Il Fine

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L’attesa invoca logicamente un fine.

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Non si tratta, infatti, di un’attesa senza senso. Questa non può appagare né tantomeno sarebbe ragionevole. E’ un’attesa che deve concludersi con qualcosa di reale, di talmente appagante che possa soddisfare pienamente l’esistere umano.

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Il grande Giovannino Guareschi (1908-1968) ci offre una bella immagine: “E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.”

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 Qui Guareschi unisce alcuni concetti importanti: il correre, l’uso di un progresso tecnologico sofisticatissimo e un desiderio che rimane inalterato nel tempo.

37

E’ ciò che abbiamo appena detto: nell’uomo albergano dei bisogni che sono universali, che non cambieranno mai, malgrado possa cambiare (e cambia) il suo essere contestualmente nella storia.

L’attesa come appagamento del desiderio

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Da qui la necessità dell’uomo di dare un significato al suo esistere, ma un significato che sappia davvero andare oltre il “qui e ora”, che in un certo qual modo sfondi l’esistenza stessa.

39

C’è un’alternativa da cui non si può prescindere: o convincersi di venire dal nulla o convincersi di essere frutto di un progetto.

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Nel primo caso bisogna consequenzialmente convincersi di essere una sorta di “incidente di percorso”, e quindi di essere “gettati nel mondo”.

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Nel secondo caso bisogna convincersi che la propria vita è stata pensata e voluta, che essa ha un senso e che il percorso vada realizzato nel riconoscimento di una “compagnia” (Dio) a cui corrispondere. L’alternativa è proprio questa, e da questa non si può prescindere.

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Se si opta per la prima convinzione, la vita si rivela come assurdo e come realtà che non può suscitare meraviglia, gusto, quasi come realtà nauseabonda.

43

La celebre astrofisica Margherita Hack (1922-2013) spesso s’impegnava nell’attività di “cattiva maestra” diffondendo idee tutt’altro che conformi alla legge naturale. Ebbene, in uno dei suoi numerosissimi incontri con studenti scolastici ebbe a dire che il Big Bang può essere definito come “una grande scorreggia dell’universo.”

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Frase disgustosa …ma coerente. Se all’inizio di tutto non viene riconosciuto un progetto, un pensiero, un Logos, allora tutto sarà all’insegna dell’illogico, per cui non c’è né un giusto né un ingiusto, né un bene né un male, né un bello né un brutto … e, pertanto, non c’è nemmeno la possibilità di distinguere il profumo dal cattivo odore.

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Volendo aprire una parentesi sull’arte, non è un caso che due celebri opere di arte contemporanea riguardino l’orinare e il defecare: La fontana di Duchamp (1887-1968) del 1917 e Merda d’artista di Piero Manzoni (1933-1963) del 1961. La prima è un semplice orinatoio, la seconda delle scatole di latta che conterrebbero le feci del sedicente “artista”.

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Senza un significato, senza un progetto, senza una ragione, senza un Logos, la vita è un essere “gettati” nel mondo, per cui non c’è differenza tra un atto di amore o di odio, tra un’impresa eroica o un defecare o un orinare.

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Senza Significato, ogni cosa che si fa, anche se meravigliosa, grande, utilissima, è priva di luce, cioè è priva –appunto- di significato.

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La luce è ciò che illumina il reale, ovvero ciò che rende conoscibile la realtà che è posta dinanzi allo sguardo. Così come le cose esistono anche al buio, indipendentemente dall’essere illuminate o meno, parimenti tutto ciò che l’uomo compie o può compiere esiste anche se egli non ha inserito nella sua vita il fondamento …ma tutte queste cose, inevitabilmente, rimangono bue.

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Scrive l’inglese Thomas Stearns Eliot (1888-1965) a proposito del nostro tempo in cui vi è la pretesa di affermare che la vita dell’uomo non scaturisca da una ragione: O buio, buio, buio. Tutti vanno verso il buio, / i vuoti spazi interstellari, il vuoto verso il vuoto, / i capitani, i grandi banchieri, gli eminenti letterati, / i generosi mecenati dell’arte, gli statisti e i sovrani, / distinti impiegati statali, presidenti di molti comitati, / industriali e piccoli mediatori, tutti vanno verso il buio. / E’ buio il sole e la luna, e l’almanacco di Gotha. / E la gazzetta della borsa, e il consiglio de direttori, / e freddo il sentimento e perduto il motivo dell’azione. / E noi tutti andiamo insieme a loro, nel silenzio funerale, / funerale di nessuno, perché non c’è nessuno da seppellire.”

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Lo riconosce perfino Jean-Paul Sartre (1905-1980): “Dostoevsky ha scritto: ‘Se Dio non esiste tutto è permesso’. Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è ‘abbandonato’ perché non trova né in sé né fuori di sé, possibilità di ancorarsi. (…). Così non abbiamo né davanti a noi né dietro di noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli, senza scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e ciò non di meno libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa. (…). L’uomo, senza appoggio né aiuto, è condannato in ogni momento a inventare l’uomo.”

 51

Scrive invece san Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae (prima secundae, questione 1, articolo 5): “Bisogna che il fine ultimo soddisfi talmente l’intero desiderio dell’uomo, cioè ogni sua esigenza e aspirazione, da non lasciare niente da desiderare e da ricercare all’infuori di esso.”

Il Pellegrinaggio

52

Constatate queste evidenze (perché di evidenze si tratta), all’uomo non resta che “leggere” la propria vita sotto la prospettiva del cammino, cioè del “pellegrinare”.

53

Precisazione questa (cammino come pellegrinare) importante, perché si tratta non di concepire la vita come un semplice andare, ma come un procedere verso un fine.

54

Il beato Guerrico d’Igny (ca1080-1157), abate cistercense, così scrive in un suo discorso per l’Avvento: “‘Preparate le vie del Signore’. Fratelli, anche se siete molto avanzati in questa via, vi resta sempre da prepararla, affinché, dal punto al quale siete giunti, andiate sempre avanti, sempre tesi verso ciò che è al di là. Così, ad ogni passo che fate, essendo preparata la strada per la sua venuta, il Signore vi verrà incontro, sempre nuovo, sempre più grande. A ragione dunque il giusto prega dicendo: ‘Indicami, Signore la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine’ (Sal 118,33). Essa viene chiamata ‘via della vita’ (Sl 138,24) () perché la bontà di colui verso il quale avanziamo non ha limite. Per questo il viaggiatore saggio e deciso, pur giunto alla meta, penserà di cominciare ; ‘dimentico del passato’ (Fil 3,13) e dirà dentro di sé ogni giorno: ‘Ora comincio’ (Sal 76,11 Volg) () Noi che diciamo di avanzare in questa via, piacesse al cielo che ci fossimo almeno messi in cammino! (…) Occorre (…) veramente cominciare, trovare ‘il cammino per una città dove abitare’ (Sal 106,21). Infatti ‘quanto pochi sono quelli che la trovano’ dice la Verità (Mt 7,14). Molti invece sono quelli che ‘vagano nel deserto, nella steppa’ (Sal 106,4) () E tu Signore ci hai preparato una via, purché acconsentiamo ad incamminarci in essa () Mediante la tua Legge, ci hai insegnato la via dei tuoi precetti dicendo: ‘Questa è la strada, percorretela, caso mai andiate a destra o a sinistra’ (Is 30,21).”

Il pellegrinare come riconoscimento della priorità dell’essere e della verità

55

Le parole del beato Guerrico d’Igny ci dicono una cosa vera: il vero cammino è un pellegrinaggio, cioè non è una ricerca della verità, ma l’incontro con la Verità.

56

Sono pertanto fuori luogo e improprie tutte quelle affermazioni secondo cui il pellegrinaggio si coniughi con la ricerca. No. Il pellegrinaggio può essere contrassegnato da un’incertezza, che è quella di non sapere se si raggiungerà la destinazione desiderata, ma non dall’incertezza riguardo all’esistenza della mèta da raggiungere.

57

L’esperienza del pellegrinaggio evita, quindi, tre errori che sono strutturali della nostra epoca: La verità è introvabile, la verità si costruisce con l’azione, la verità si può trovare solo in se stessi.

58

Il primo errore: la verità è introvabile. Il pellegrinaggio è un andare verso la méta, dove –come abbiamo avuto già modo di dire– la méta c’è, è presente; ancora non è raggiunta, ma è lì che attende. Si tratta, dunque, di un’esperienza agli antipodi dello scetticismo e del nichilismo a cui inevitabilmente approda il pensiero moderno. Il pellegrinaggio non è una ricerca dove non si sa se si troverà ciò che si vuole ricercare, ma un viaggio verso una destinazione ben precisa.

59

Dante (1265-1321) scrisse la Commedia per affermare questa verità. In una lettera a Cangrande della Scala (1291-1329) il Poeta dice di aver scritto la sua opera per rimuovere i viventi dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza e quindi per accompagnarli alla felicità e alla beatitudine. Insomma, Dante scrisse la Commedia perché, leggendola, si potesse intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterne. Infatti è Dante stesso che nel Convivio avverte come un’opera sacra vada letta su quattro livelli: letterale, allegorico, morale e anagogico. Troppo spesso ci si limita nelle scuole a capire la lettera del testo dantesco e l’allegoria (il significato nascosto), senza la preoccupazione di intendere quello che Dante scrive per la nostra felicità (significato morale) e per la nostra salvezza (livello anagogico).

60

Ma torniamo al punto importante. Non a caso monsignor Charles Moeller (1912-1986), teologo e scrittore belga, dice che c’è una sola cosa che supera la bellezza della Divina Commedia, ed è la bellezza dei santi, persone che hanno incontrato un ideale così grande che nel loro volto è come se incarnassero questa bellezza. Dunque persone che hanno terminato il cammino: solo la bellezza della mèta può superare la bellezza del cammino.

61

Il secondo errore: la verità si costruisce con l’azione, cioè con la prassi. Questo è l’errore tipico della modernità.

62

La categoria filosofica della modernità, da non confondere con la cosiddetta modernità cronologica, si distingue per aver anteposto sempre qualcosa alla dimensione dell’essere, arrivando ad affermare che il vero non sarebbe un dato, ma un risultato del pensiero o dell’azione. Insomma la verità non sarebbe da riconoscere, ma da inventare.

63

Il terzo errore: la verità si può trovare solo in se stessi. Anche questa convinzione è strutturale al pensiero contemporaneo. Ci riferiamo al fatto che, una volta dimenticata la prospettiva metafisica, l’uomo è costretto a trovare la risposta al suo esistere solo in se stesso, e solo nell’esistente, cioè solo nel presente.

64

La tragedia, però, sta nel fatto che l’uomo dolorosamente scopre che né la sua natura né la sua vita né tantomeno le cose che fa nel presente possono essere adeguate risposte a se stesso.

65

L’esperienza del pellegrinaggio, invece, riconduce ad un’altra prospettiva: la risposta non sta nel “qui ed ora”, bensì nel “dopo”. Il “qui ed ora” costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente perché l’uomo trovi la risposta al suo vivere.

66

Il pellegrinaggio ricorda all’uomo che egli è fatto per l’eternità e che se non orienta la sua vita verso l’eterno non può capire nulla di se stesso.

67

Il pellegrinaggio ricorda all’uomo che per capire il presente deve andare oltre, che per capire la terra deve guardare il cielo, che per capire il tempo deve indirizzarsi verso l’eternità.

68

L’esperienza del pellegrinaggio è strutturata e fondata sulla priorità dell’essere rispetto all’azione, sulla verità rispetto alla ricerca.

69

A proposito del guardare il Cielo, gli esperti di anatomia dicono che l’uomo è l’unico vivente che possiede un’articolazione che gli permette di rivolgere bene lo sguardo verso il cielo. Così come è altrettanto significativo che un animale come il maiale sia strutturalmente impossibilitato a guardare verso l’alto.

Il pellegrinare per raggiungere la vera felicità

70

La vera felicità è la gioia. La vera felicità è qualcosa di permanente e che può convivere anche con la sofferenza. La vera felicità non è alternativa alla sofferenza, ma alla disperazione.

71 

La vera felicità è data quando si sa bene perché si vive, perché si deve soffrire, perché si deve morire.

72

Scrive il filosofo Pietro Prini (1915-2008): La più alta forma del valore della vita è la vittoria contro la disperazione. Perché l’uomo a differenza di ogni altro essere vivente sopra la terra, è ‘al di là della propria somma’, come dice il poeta Paul Valery, è essenzialmente l’indizio di un senso che lo oltrepassa e che nessun calcolo può mai contabilizzare.”

73

Quando fu recuperato il corpo di Kurt Cobain (1967-1994), leader dei Nirvana, fu trovato anche un biglietto con la motivazione del suo suicidio. Vi era scritto: “Ho perso la gioia di vivere. Meglio andarsene con una vampata, che morire giorno dopo giorno. A volte mi sembra di timbrare il cartellino, quando sto per salire sul palco. Da anni ho perso il gusto della vita, e non posso continuare a ingannare tutti. Il peggior crimine è l’inganno. Ho bisogno di staccarmi dalla realtà per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino. Sono anni che non provo più niente. Ho perso tutto l’entusiasmo. Anche la mia musica non è più sincera…”.

74

Un tempo, gli attuali cinquantenni solevano da ragazzi giocare al calcio per strada o sul qualche piazzale. Si prendeva il famoso pallone arancione (con cui si sono divertite generazioni e generazioni) e si calciava e si correva. Quando si era in pochi, per un po’ di tempo ci si cercava di divertirsi passandosi la palla, ma poi –immancabilmente- si avvertiva il bisogno di immaginare una porta, mettere qualcuno a parare, e finalizzare il gioco.

75

Ecco il punto: finalizzare il gioco. Era noioso passarsi il pallone senza tirare …e segnare. Anche nel divertimento c’è bisogno di finalizzare.

76

Quando si cammina senza saper dove andare, il passo è lento: in un certo qual modo si ciondola. Quando invece si ha una mèta prefissata, allora sì che il passo è spedito e l’andatura sicura. Lo stesso vale per la vita. La vita è un cammino, non un vagare. La vita è un cammino dove la mèta deve essere sempre presente. Dove deve essere sempre attuale il “Destino” che si andrà ad incontrare e a compiere.

77

La vita è un cammino per assaporare lo “spessore del reale”.

78

Che l’uomo sia fatto per assaporare lo “spessore del reale” è incontestabile. Quando parliamo di assaporare lo spessore del reale, intendiamo l’attenzione di dare una risposta ai propri concreti bisogni e il cogliere quella Verità che risolve concretamente tali bisogni.

79

E qual è il bisogno per eccellenza? Incontrare Dio, unico significato possibile dell’esistenza umana.

80

Lo scrittore Giovanni Papini (1881-1956), dopo essersi convertito, così scrive nella sua Vita di Cristo: “Abbiamo bisogno di Te, di Te solo, Gesù, e di nessun altro. Tu solamente che ci ami, puoi sentire per noi tutti che soffriamo la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo, Gesù, puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di Te, in questo mondo, in questa ora del mondo.”

 81

Il beato don Karl Leisner (1915-1945) scrisse nella sua ultima lettera prima della liberazione da Dachau: Il cosmo è diventato caos, perché l’uomo si è rimesso ai demoni del caos. Noi, ora, vogliamo contemplare Nostro Signore e avere fiducia nella sua eterna legge di vita, affinché l’ordine e la pace tornino tra noi e il diritto regni tra gli uomini. Gesù Crocifisso e Risorto ci offrirà il suo aiuto se noi preghiamo con pazienza, soffriamo e offriamo le nostre rinunce. Il sorriso, pieno di sole, abiterà di nuovo i nostri cuori provati e solo grazie a Gesù, ritornerà la primavera.”

82 

Il beato don Leisner dice: “Il sorriso, pieno di sole, abiterà di nuovo i nostri cuori.” Eliot ci aveva detto che il non-senso contemporaneo ha reso buio finanche la luce del sole che è di per sé accecante: “E’ buio il sole e la luna.”

83

Ebbene, alla luce del sole (che è tale perché la vita poggia su una ragione) iniziamo il nostro Cammino per andare verso Colui che è la ragione di tutto.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri

 

 

 

 

 


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1 Comment on "LA TAPPA: La bellezza de Il Raduno… per capire perché la vita è un pellegrinaggio"

  1. siamo tutti come foglie tremule che stanno sui rami in autunno…lì,lì per cadere…
    così siamo noi:tutti in imminente pericolo di vita!

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