ARCHIVIO DEL PELLEGRINO – La filosofia di Aristotele

Aristotele è il filosofo pagano “più cristiano”, ovviamente “cristiano” tra virgolette perché visse ben tre secoli prima della nascita di Gesù (384-322 a.C). E’ indubbio però che il suo pensiero, pur con diversi errori, è stato quello che più facilmente si è potuto “cristianizzare”. San Tommaso d’Aquino docet!

E allora parliamo del suo pensiero.

Famosa è un’opera di Raffaello, La Scuola di Atene, dove si vedono Platone e Aristotele affiancati. Platone indica l’alto, Aristotele il basso; infatti, a differenza di Platone, Aristotele si concentra sulla realtà materiale.

Platone è importante in quanto è il primo ad interessarsi, filosoficamente, del mondo ultraterreno (soprasensibile); Aristotele per il contrario: perché cerca di calare il mondo soprasensibile in quello sensibile.

Ad Aristotele la contrapposizione dualistica (spirito-materia) di Platone non andava proprio giù. Per lui era poco ragionevole, così come poco ragionevole gli sembrava il fatto che la realtà materiale fosse solo una parvenza, una copia del mondo delle idee. Voleva una spiegazione che non fosse scettica, che spiegasse tutto (era fin troppo intelligente per credere alla sciocchezza di una verità che non esiste né è conoscibile), ma nello stesso tempo voleva che questa spiegazione fosse realistica, non campata in aria: le idee, il mondo delle idee, l’iperuranio, ecc… gli sembravano cose molte strane. Ovviamente ciò non toglie che doveva molto a Platone di cui fu discepolo. Con lui infatti condivideva la convinzione che la realtà rispondesse ad un disegno ben preciso, ad un piano razionale.

Con Aristotele s’impose la metafisica (anche se la chiamava ancora “filosofia prima”).

Cos’è la metafisica? E’ la dottrina dell’essere in quanto essere, è lo studio del fondamento, della verità, che non appare all’esperienza sensibile. Dicevamo che Aristotele non la chiamava ancora “metafisica” e questo per un motivo ben preciso. Il termine fu introdotto dopo, da Andronico di Rodi (I secolo d.C.), che, riordinando le opere di Aristotele, mise quelle riguardanti la “filosofia prima” dopo (meta) i libri che trattavano le cose naturali, fisiche per l’appunto.

Ma Aristotele non si concentrò solo sull’indagine metafisica, partì anche da un presupposto molto corretto e cioè che questa metafisica dovesse basarsi sul buon senso, sulla convinzione che la realtà non può essere separata da ciò che percepiscono i sensi.

Ecco! Se vogliamo ben capire ciò che Aristotele ha detto dobbiamo sempre aver presente il senso della concretezza che contraddistingue la sua filosofia. D’altronde – si narra – egli gli affari li sapeva fare bene. Si fece pagare salatamente, prima, da Filippo II per l’educazione del figlio Alessandro e, poi, da Alessandro stesso. E sapeva anche conservare bene il suo patrimonio se è vero (può essere però una malignità) ch’era un taccagno di quelli di alto livello. Pare che fosse abituato a farsi il bagno in una tinozza piena di olio d’oliva e che poi non usasse buttare l’olio ma rivenderlo per uso alimentare… ma torniamo al suo pensiero, che è meglio.

Platone aveva collocato l’idea fuori della realtà sensibile (nell’iperuranio), Aristotele invece la colloca nei singoli enti (cioè nelle cose). Insomma, l’universale non è fuori ma nelle cose.

Aristotele riuscì a fare questo grazie alla scoperta del sinolo, ovvero l’unione tra ciò che è universale (il concetto) con ciò che è particolare (l’oggetto). Il sinolo è l’unione della materia e della forma.

La materia è una possibilità indeterminata che viene determinata dalla forma, e la forma, ovviamente, è l’elemento attivo che determina la materia. La forma è un principio universale; è per la forma che Giovanni e Anna sono uomini e non animali o piante. La materia è invece il principio particolare ed è detto anche principio d’individuazione perché distingue un individuo dall’altro della stessa specie (Giovanni da Luigi, questo cane da un altro cane, ecc.).

Ogni essere è sostanza e la sostanza è appunto l’unione di materia e forma.

L’essere ha anche delle categorie che sono chiamate accidenti. L’accidente è ciò che non può essere in sé ma è nella sostanza. Per esempio nell’uomo è la statura, il carattere, la cultura, la virtù, ecc. Queste categorie (o accidenti predicabili della sostanza) sono nove: la quantità, la qualità, la relazione, il luogo, il tempo, l’azione, la passione, la situazione e il possesso.

Abbiamo detto che Aristotele cercò di risolvere tutto con il senso della concretezza, che possiamo anche chiamare “equilibrio”. E infatti la teoria del sinolo altro non è che il punto di accordo tra il naturalismo dei presocratici e l’idealismo di Platone. Le cose non sono costituite dalla semplice aggregazione di elementi naturali (un oggetto non può ridursi ad una somma di particelle), ma (le cose) sono sempre originali rispetto alle altre. Insomma ogni cosa è sempre un individuo ed ogni individuo è sempre diverso dagli altri individui in quanto è un sinolo. Ecco perché c’è un po’ di naturalismo (la materia), ma anche un po’ di idealismo platonico (la forma).

Aristotele, risolto il problema del non dover andare nel mondo delle idee, emise un sospiro di sollievo…ma poi – pensò – come vado a risolvere il problema del divenire? Si mise nuovamente a pensare fin quando non trovò anche per questo una soluzione validissima: la teoria della potenza e dell’atto.

Potenza significa possibilità di ricevere una determinata forma; atto è averla ricevuta. Per esempio il chicco di grano è atto come chicco di grano, ma è potenza per la spiga che da lui deriverà.

Questo divenire è regolato da quattro cause: materiale, efficiente, formale e finale. Ricordiamo l’esempio presente in tutti i manuali di filosofia, quello dello scultore e della statua. La causa materiale è il marmo; la causa formale è la figura che si deve scolpire; la causa efficiente è lo scultore e la causa finale è il fine per cui lo scultore ha deciso di scolpire la statua, fine già presente nello scultore ancor prima che iniziasse il lavoro.

Il passaggio dalla potenza all’atto è un divenire che può segnare una mutazione sostanziale (per esempio, il pezzo di legno trasformato in tavolo), ma può anche segnare una mutazione non sostanziale come, per esempio, la crescita dell’uomo. Dunque, nel caso dell’uomo, quando Aristotele parla di divenire non intende che la persona cambi diventando altra cosa. Il bambino appena nato (o ancora nel grembo della madre) è uomo, così come resta uomo quando è adulto. Basterebbe già Aristotele per mettere a tacere i sostenitori dell’aborto!

Passiamo alla fisica. Abbiamo detto che materia e forma costituiscono il sinolo di ogni individuo ed è attraverso di esso che Aristotele classificò le specie degli individui: prima il regno razionale umano, poi il regno sensibile animale, quindi il regno vegetale e infine il regno minerale. Tutto l’universo – diceva – è compreso entro due limiti, uno inferiore al di sotto del regno minerale (la “materia prima”) ed uno superiore al di sopra del regno umano (la “forma pura”). La “materia prima” è pura potenzialità, priva di qualsiasi forma, assolutamente indeterminata; la “forma pura” è atto puro senza alcuna potenza: è Dio.

Secondo Aristotele Dio è atto puro perché è perfezione assoluta. E’ motore immobile perché è causa del divenire del movimento dell’universo, rimanendo immobile. E’ pensiero di pensiero perché contempla solo se stesso e non desidera altro, perché è assoluto.

Però questa concezione di Dio, da una parte, è piena di verità; dall’altra, ha grandi lacune. Per esempio, è un Dio senza amore, che muove sì la natura ma non in virtù di una sua attività. La natura è attratta verso di lui ma non lui verso la natura.

Mentre Democrito aveva detto che tutto l’universo (cielo e terra) è formato dalla stessa materia, atomi e solo atomi, mossi da una forza meccanica; Aristotele dà spazio alla presenza di Dio e afferma che tutto tende a lui. Il nostro filosofo, infatti, distingue il mondo terrestre dal mondo celeste. Il secondo (il mondo celeste), a differenza del primo, è formato da etere per cui, non essendo tutto atomi e materia, è libero da qualsiasi meccanicismo. Dunque, Aristotele poté negare il meccanicismo (puro movimento meccanico senza senso) e affermare il finalismo (tutto si muove verso un fine).

Passiamo ad un altro punto importante del pensiero di Aristotele: la conoscenza. Questo problema lo risolse in coerenza con le soluzioni da lui trovate precedentemente. Rifiutò le idee innate di Platone e disse che la mente, prima della conoscenza, è solo una tavola spoglia di tutto (una tabula rasa); ma una tavola che può essere apparecchiata, pronta cioè ad accogliere nozioni.

Indicò tre passaggi nella conoscenza: sensibilità, immaginazione e intelletto. La sensibilità è la conoscenza attraverso i cinque sensi, ma anche attraverso un senso (senso comune) che unifica tutte le impressioni particolari di uno stesso oggetto. L’immaginazione coordina invece le varie sensazioni formando l’immagine dell’oggetto, anche quando questo non è più presente ai sensi; immagine che la memoria conserva. La funzione dell’intelletto è invece quella di astrarre la forma dalla materia.

Riguardo all’intelletto bisogna aggiungere una differenza importante. L’intelletto che astrae è l’intelletto attivo o agente, quello che conserva il concetto è l’intelletto passivo. Ma perché non un unico intelletto? Perché l’intelletto che conosce deve sempre essere potenza di qualcos’altro, altrimenti non potrebbe divenire e quindi acquisire nuove conoscenze.

E’ evidente che, secondo questo ragionamento, soltanto l’intelletto attivo sarebbe immortale, separato com’è dal corpo. Quello passivo invece, legato alla sensibilità ed essendo forma della materia (il corpo), non può sopravvivere autonomamente e quindi sarebbe mortale insieme con il corpo, perché la forma non può separarsi dalla materia.

Dunque, per Aristotele l’uomo non possiede un’anima immortale?

Alcuni commentatori, come Alessandro di Afrodisia (sec.II-IIId.C.), Averroè (sec. XII) e Pietro Pomponazzi (sec. XV-XVI), diranno categoricamente che Aristotele, identificando l’anima con l’intelletto passivo, non ha ammesso l’esistenza di un’anima individuale immortale.

Ma queste sono sciocchezze. Basta ragionarci. Per Aristotele l’intelletto attivo attua quello passivo e la potenza attuata non è separabile dal principio attuante, anzi non può essere neppure distinguibile, perché essa non è più in quanto è diventata atto. Dunque, l’intelletto passivo non è distinguibile da quello attivo.

Per quanto poi riguarda la composizione dell’uomo, Aristotele si allontana mille miglia dallo spiritualismo di Platone. L’uomo non è solo anima, come affermava il suo maestro, ma è il risultato sostanziale di anima e corpo, la prima concepita come forma e il secondo come materia.

Aristotele per la sua concretezza ci teneva a fare discorsi rigorosamente scientifici. Lui, poverino, che i discorsi non li sapeva fare perché balbuziente. Ma, scrivendo, li faceva eccome!

Come ogni individuo deve essere collocato nel suo posto nell’universo, così i vari concetti devono essere legati con ordine per far corrispondere bene concetti con individui e viceversa. Questo sapete come si chiama? Lo-gi-ca!

Aristotele diceva che il pensiero in libertà non serve proprio a niente; serve, se cerca di raggiungere la verità e di evitare l’errore. E allora, concentrandosi sulla logica, disse che ci sono tre princìpi logici fondamentali: d’identità (A=A; Non-A=Non-A), di non-contraddizione (A non può essere Non-A), del terzo escluso (tra le due proposizioni A=B e A diverso da B non ne esiste una terza, tra verde e non-verde non c’è un altro termine).

Qualcuno (anzi molti) hanno accusato la logica di Aristotele di essere troppo formale e di non saper riprodurre la complessità della realtà. Accusa che non sta in piedi, perché essa (la logica di Aristotele), pur essendo legata alla corretta affermazione di proposizioni e di giudizi, non è inventata ma scoperta proprio nella realtà delle cose. Un esempio: parlando del principio di non-contraddizione, Aristotele disse ch’esso è tanto vero che chi volesse negarlo, lo dovrebbe affermare. Eh già: se io dicessi che non è vero il principio di non-contraddizione, distinguerei ciò che è vero da ciò che è falso e viceversa, ben sapendo che ciò che è vero non si confonde con ciò che è falso e ciò che è falso non si confonde con ciò che è vero. Dunque, questo principio lo caccerei dalla porta ma poi lo farei rientrare dalla finestra.

Passiamo adesso alla concezione politica su cui Aristotele ha scritto abbastanza.

Per ogni essere – disse – il bene consiste nella piena attuazione della propria essenza; perciò, per l’uomo, che è animale ragionevole, il bene consiste nel pieno e compiuto sviluppo della ragione.

In questo soddisfare le aspirazioni della propria natura sta la virtù che procura felicità (eudemonismo). Aristotele disse che l’uomo, per natura, è portato a vivere in società con i suoi simili e che, pertanto, lo Stato è una forma di associazione naturale nella quale l’individuo attua pienamente la sua vita.

Anzi, disse di più: la società si fonda sulla famiglia! Diceva giustamente che l’educazione dell’infanzia spetta primariamente alla famiglia; che lo Stato deve punire con leggi severe coloro che mostrano, espongono o danno occasione ai fanciulli di vedere figure in atteggiamenti osceni o scomposti perché tutto ciò turberebbe la loro delicata sensibilità. Scrisse: “Il legislatore dovrebbe assolutamente bandire il turpiloquio dalle città come ogni altro male, (…): almeno dovrebbe evitare il contatto dei giovani con gente che ha in bocca questo turpiloquio, affinché (i bambini) non odano o non pronuncino parole sconce (…).” E ne ebbe anche per il divorzio. Il coniuge che volesse sottrarsi al vincolo naturale del matrimonio sarebbe (sono sue parole): “l’animale più empio e più selvaggio”. Ma Aristotele era comunque figlio del paganesimo e disse anche cose sbagliate. Per esempio: i nati che mostrassero difetti psico-fisici (storpi, deficienti, ecc.), non essendo suscettibili di educazione e costituendo inutile impaccio, devono essere soppressi. Altro punto negativo: giustificava l’esistenza degli schiavi. Questi – diceva – pur essendo esseri ragionevoli, sono inferiori ai liberi e sono indispensabili per il bene di tutti i cittadini. L’uomo libero deve pensare alle attività dello spirito senza essere distratto da attività servili (quanto è falso! i veri intellettuali e i veri politici devono invece saper zappare e lavare il pavimento!).

Passando alla morale, va detto che per Aristotele l’essenza razionale dell’uomo si esprime in due direzioni: le virtù etiche e le virtù dianoetiche.

Le prime consistono nel dominio degli impulsi sensibili e nella loro sottomissione alla ragione, in maniera che siano evitati i due estremi del difetto e dell’eccesso. La virtù etica è detta del giusto mezzo.

Le virtù dianoetiche consistono nell’attività intellettiva. Questo ci fa capire come in Aristotele l’intellettualismo etico (se si conosce la verità, automaticamente si sarà buoni) rimane sì ma viene un po’ mitigato perché come criterio di giudizio non c’è solo la conoscenza (virtù dianoetiche) ma anche la volontà (virtù etiche).

Ed eccoci all’estetica. A differenza di Platone che condanna l’arte perché copia di una copia, Aristotele ne dà un giudizio positivo. L’artista – diceva – imita sì la natura, ma questa imitazione non è rivolta all’aspetto sensibile della realtà ma all’essenza universale delle cose.

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