COMMENTO AL CATECHISMO DI SAN PIO X – n.193

A cura di Pierfrancesco Nardini


Domanda: Che ci proibisce il quinto comandamento: Non ammazzare?
Risposta: Il quinto comandamento: Non ammazzare ci proibisce di recar danno alla vita sia naturale che spirituale del prossimo e nostra; perciò ci proibisce l’omicidio, il suicidio, il duello, i ferimenti, le percosse, le ingiurie, le imprecazioni e lo scandalo.


La vita è donata da Dio, “è fondata su un diritto proveniente direttamente da Dio e non dai genitori o dallo Stato o da qualunque altra autorità umana” (E. Jone, Compendio di teologia morale). Questo è alla base del quinto Comandamento, e rende così peccato gravissimo, che grida vendetta al cospetto di Dio, ogni azione diretta a togliere la vita a una persona, anche a se stessi.

Proibisce però anche ogni ferimento, mutilazione, che, seppur di per sé potrebbe anche non essere direttamente mortale, può però sempre esporre a complicazioni o a conseguenze che mettono in pericolo la vita. Come commenta il Dragone, “sono come un inizio di omicidio”.

La Chiesa ha sempre chiarito che questo Comandamento include anche aborto ed eutanasia, che altro non sono che interruzione volontaria di una vita già o ancora in corso. È, perciò, proibito “uccidere ammalati per abbreviare loro le sofferenze (…) A titolo di tentativo, è illecito ai medici dare una medicina pericolosa, che può avere come conseguenza anche la morte; si fa eccezione solo se l’ammalato non sia più salvabile con alcun altro rimedio e a condizione che si abbia in qualche modo il suo consenso nell’applicazione di tale mezzo. Lo stesso vale per le operazioni chirurgiche” (E. Jone, op. cit.).

Si ribadisce che è proibito “sub gravi” l’aborto. È peccato gravissimo anche il solo tentativo di abortire, ossia mettere in atto azioni idonee, o anche solo intenzionate, a sopprimere la vita nel seno della madre. Questa proibizione inclusa nel quinto Comandamento, così come quella dell’eutanasia, si fonda sulle stesse motivazioni di qualsiasi omicidio: “anche il bambino nel seno materno, ha il diritto alla vita immediatamente da Dio, non dai genitori, né da qualsiasi società o autorità umana” (Pio XII, Discorso alle ostetriche, 29.10.1951). Dio dona la vita ad ogni uomo per raggiungere il proprio fine personale dell’eterna felicità nella visione beatifica del Paradiso e questo fine si deve ottenere nel tempo della sua esistenza naturale, senza farla finire prima del tempo.

Dio, infatti, ha donato all’uomo il diritto alla vita, non il diritto sulla vita; l’uomo non può dunque volontariamente rinunziare a questa, men che meno toglierla ad altri. “Poichè questo diritto non proviene né dai genitori né molto meno dallo Stato o da qualsiasi altra autorità umana, nessuno può intrometterssi in questo diritto togliendo direttamente ad un innocente la vita per raggiungere fini personali”. Si deve sempre ricordare, inoltre, che il contravvenire al quinto Comandamento “non si può giustificare con nessuna teoria e nessun punto di vista medico, eugenetico, sociale, economico” (citazioni da E. Jone, op. cit.).

Le uniche situazioni in cui non viene considerato peccato togliere la vita a qualcuno sono tre, di cui, ai nostri giorni, due non sono più ben compresi: legittima difesa, guerra e pena di morte decisa dall’autorità competente. Queste ultime due, come detto non più comprese, anzi nemmeno ammesse per molti, sono sempre state invece accettate dalla Chiesa, coi limiti necessari e ben stabiliti.

La legittima difesa è di facile comprensione: se ci si trova in una situazione in cui qualcuno mette a rischio la nostra vita aggredendoci fisicamente, abbiamo non il diritto ma anche il dovere di difenderci, fino a togliere la vita all’aggressore, se è l’unico modo per evitare la nostra morte. Deve essere cioè l’extrema ratio: nel caso si possa fuggire, immobilizzare, chiamare aiuto o mettere in atto qualsiasi altra soluzione per evitare di uccidere, non si rientrerà più nella deroga della legittima difesa. Siamo davanti ad una scelta estrema, quella tra due vite, la nostra e quella di chi ci aggredisce. In questo contesto rientra anche il cosiddetto stato di necessità, ossia situazioni di estremo pericolo per la vita in cui si deve scegliere tra salvare se stessi o un altro. Nell’esempio classico di una situazione di pericolo di morte immediata, come l’essere scivolati in un dirupo con un solo appiglio utile per provare a salvarsi dalla mortale caduta, fare di tutto per arrivare a quell’appiglio prima dell’altro e salvare la nostra vita, è un caso estremo che deroga dal quinto Comandamento. In questo contesto è da specificare dunque che la legittimità della difesa sarà data sempre e solo se … sarà difesa. Se si controattacca l’aggressore che ha deciso di fermarsi e lo si uccide, ci si sarà tolti da quell’estrema condizione. Così come nel caso di una vendetta.
In queste specifiche rientra anche quella necessaria sull’aborto.

In situazioni estreme in cui si deve arrivare all’ardua scelta tra la vita della madre e quella del figlio (ad esempio il caso classico di malattia della madre che, se curata, uccide il figlio nel grembo, se non curata, muore), non è mai stato considerato peccato dalla Chiesa la scelta di curare la madre col rischio, anche quasi certezza, di perdere il bambino. Se ci si pensa, equivale a uno stato di necessità. Ci sono due vite, se ne può salvare solo una. Eroica, la madre che decide di non curarsi, o meglio ritardare le cure, pur di far nascere il figlio. Non sarà però mai ammesso un atto volontario diretto ad uccidere la vita nel grembo della madre per salvare lei. Un conto sarà scegliere se curare o no, un contro è togliere la vita al bambino direttamente, a priori. “Neppure il più nobile degli scopi, quale è per esempio la salvezza della madre, giustifica l’uso di mezzi intrinsecamente illeciti. Chi afferma la liceità dell’uccisione diretta del bambino nel seno materno per salvare la madre, per essere coerente, dovrebbe pure ammettere che per il bene comune sarebbe lecita l’uccisione diretta di qualunque innocente” (E. Jone, op. cit.). Come chiariva Pio XII nel su citato discorso, “salvare la vita della madre è un nobilissimo fine; ma l’uccisione diretta del bambino come mezzo a tal fine, non è lecita”.

Un ultima nota è necessaria per porre l’attenzione su un particolare, importante ma quasi nascosto, che San Pio X introduce in questo numero: egli scrive con chiarezza che il quinto Comandamento “proibisce di recar danno alla vita sia naturale che spirituale del prossimo e nostra”, anche alla vita spirituale dunque. Il peccato, non ci si stancherà mai di ripeterlo, è il male più grande e grave. Con questo si deve dunque stare molto attenti anche alla propria responsabilità verso la vita spirituale di chi è a noi affidato e all’esempio che portiamo con la nostra vita e quanto affermiamo nel mondo. Responsabilità massima per la gerarchia ecclesiastica a cui è affidato il gregge di Cristo, ma anche per ognuno di noi, a partire dalla propria famiglia.


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