SOSTA: Cristianesimo senza vita eterna? No, grazie.

di Corrado Gnerre per il C3S

Uno dei temi molto dimenticati dalla “pastorale” contemporanea sono le verità riguardanti la vita eterna.

Nelle omelie sentir parlare di inferno, purgatorio (vada più spesso per il paradiso)…è un po’ come vincere una lotteria. Invece, problemi sociali e altre questioni, quante se ne vogliono.

L’annuncio cristiano si è troppo immanentizzato, cioè si è troppo concentrato sul desiderio di cambiare in positivo l’al di qua. Di per sé questo non sarebbe sbagliato, se è vero (come è vero) che il catechismo parla di opere di misericordia corporale; ma concentrarsi solo su questo è senz’altro insoddisfacente ad esprimere il valore salvifico del mistero di Cristo.

Il cristianesimo è sì attenzione alla vita terrena, ma è soprattutto risposta a quel desiderio di eternità che alberga nel cuore di ogni uomo. “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”, dice Pietro, timoroso di un possibile abbandono da parte del Maestro. E in queste parole riecheggia tutta la tensione che ha animato l’umanità nel corso dei secoli. Quell’ansia, cioè, di trovare una risposta ad un impietoso dover finire. Tutte le manifestazioni dell’umano, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, manifestano quest’ansia, questo ineliminabile desiderio.

Sant’Alfonso, nel suo celebre Apparecchio alla morte, dice che il Cristiano o vive per raggiungere il paradiso o il suo cristianesimo è inutile. E’ una visione potremmo dire “agonistica” dell’esistere che esprime bene la serietà e la tragicità del gesto redentivo di Cristo. O si vince o si perde, “partecipare” sarebbe del tutto inutile.

Il Dio incarnato si fa uccidere sulla Croce, dona cruentamente la sua vita, per qualcosa di importante. Trascurare il paradiso significherebbe fare della Redenzione e dell’Incarnazione, avvenimenti inutili… o quasi. Anche Dante, che visse in un tempo che poneva seriamente le questioni dell’esistenza e della teologia, esprime bene questa caratterizzazione “agonistica” del cristianesimo. Appena varcata la soglia dell’inferno, il Poeta viene a sapere da Virgilio che i sospiri e i lamenti che ode sono delle anime di coloro che in vita non hanno voluto scegliere tra il bene e il male. Costoro si lamentano inseguendo una bandiera senza alcuna insegna. Spiriti che in vita non avevano voluto compiere alcuna scelta, sono eternamente costretti a seguire una bandiera senza stemma. Il Cristianesimo è desiderio di vincita e di realizzazione, è inevitabile scelta di campo.

La teologia neomodernista, invece, trascura questa dimensione escatologica. Influenzata dal pensiero personalista in cui la persona esiste e si valorizza necessariamente –e non liberamente- nella relazione con gli altri, finisce con il concepire la vita terrena non solo come via ma anche come meta. E così questa teologia, dominante negli ultimi decenni, trascura la dimensione escatologica (cioè le questioni riguardanti l’al di là) perché teme che possa significare svalutazione della vita terrena. Nulla di più falso. E’ proprio il contrario. Vivere per il paradiso non vuol dire affatto trascurare la vita terrena. Almeno per due motivi.

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Quando il cristiano vive la sua fede principalmente per il paradiso, capisce che la sua vita non è solo “generalmente” ma anche “particolarmente” seria.

Semplifichiamo. Quando si vive nella prospettiva del giudizio eterno, ogni momento della vita diviene segno di una scelta che si compie. Da ogni momento, da ogni scelta, può dipendere l’esito del giudizio eterno. Dunque, la vita diventa importante non solo nella sua estensione ma anche nei più “banali” particolari. “Il tempo – dice sant’Alfonso- è un tesoro che solamente in questa vita si trova”. Ed è il tesoro con cui possiamo “comprare” la felicità eterna. Che “valore d’acquisto” avrebbe il tempo per l’uomo che decidesse di non vivere per l’eternità? Che significato avrebbero per questo tipo di uomo le sue scelte, i suoi gesti, i suoi progetti? Ritenere che il tempo finisca nel momento in cui si realizza, significherebbe considerarlo flusso incomprensibile ed assurdo. Invece, se il tempo è una dimensione relativa all’eterno, diviene occasione piena di significato. Il significato di potersi costruire il proprio destino.  E’ la grande lezione di sant’Agostino.

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Ma vi è anche un altro motivo che dimostra che il vivere per il paradiso non è affatto trascurare la vita terrena. Quando il Cristiano vive la sua fede principalmente per il paradiso, sperimenta la possibilità della felicità.

Purtroppo in questa vita non può esistere una felicità che sia alternativa alla sofferenza, può esistere invece una felicità che sia alternativa alla disperazione. Se si vive senza la prospettiva della vita eterna, tutto perde significato; e quando arriva la sofferenza, questa, senza significato, si impone come un macigno insopportabile. Ci si può divertire, cercare di distrarsi e non pensare, ma ritorna sempre la questione del dolore e della fine. Se non si ha alcuna risposta, la vita si fa di-sperata, cioè senza speranza. Come canta Edgar Lee Master: (…) una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio, è una barca che anela al mare eppure lo teme”. E sembra rispondergli sant’Alfonso: “Chi ama Dio, nelle cose avverse si rassegna alla divina volontà e trova pace; (…).

Su questo il cristianesimo contemporaneo dovrebbe riflettere. E’ valsa la pena trascurare la risposta all’ansia di vita eterna, dimenticare i novissimi, togliere dalle omelie riferimenti sull’inferno, sul purgatorio, sul paradiso? A chi ha giovato? Mai come oggi la tristezza è divenuta così sociologicamente rilevante; e mai come oggi l’irrazionalismo affascina molti cristiani, forse inconsciamente desiderosi di sentirsi annunciare granitiche certezze sul mistero della morte.


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