SOSTA – Dallo splendore del Bello …all’Orinatoio di Duschamp. Quale spiegazione?

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


Molti sapranno dell’orinatoio (titolo più elegante: La fontana) di Marcel Duschamp (1887-1968). Si tratta di una sedicente opera d’arte che dell’arte contemporanea è in un certo senso l’emblema più significativo.

Poniamoci allora un interrogativo: come mai si è arrivati ad un’ “arte” in cui domina il brutto?

Prima di tutto va detto che la realtà è molto più semplice di quanto possiamo immaginare. Alla fine due più due fa quattro anche nelle cosiddette “scienze inesatte”, come quelle umanistiche. E se ci chiediamo quali complesse motivazioni possano esserci nella cosiddetta arte contemporanea, quella del “beato-chi-ci-capisce-qualcosa” per intenderci, la risposta è che le motivazioni ci sono, e non sono affatto complesse, nel senso che sono molto più intuibili di quanto possiamo immaginare.

Veniamo al dunque. Dovete sapere che fino ad un certo periodo della storia il metodo della filosofia era quello realista, ovvero quello secondo cui la verità è nell’adeguamento del soggetto all’oggetto. E non a caso. Oltre ad un motivo di buon senso, perché ovviamente è così (infatti la verità non può fare a meno dell’osservazione) vi era anche un motivo antropologico. Il realismo filosofico è l’esito della convinzione di essere limitati, dipendenti, di essere cioè “creature”. Il realismo, infatti, conduce alla constatazione di quanto siamo piccoli e di quanto non ci sia permesso stravolgere la nostra natura finita. Ma poi le cose iniziarono a cambiare. Si passò dal realismo al razionalismo. Un “certo” Cartesio (“certo” si fa per dire) operò una vera e propria rivoluzione filosofica. La sua frase rimasta famosa, cogito ergo sum (penso, quindi esisto), non è solo una frase ad effetto che molti studenti ripetono a mo’ di cantilena senza capirla (perché non gliela fanno capire), bensì fu una vera e propria “rivoluzione” filosofica. In soldoni: non era più la realtà oggettiva a garantire l’esistenza del pensiero, bensì il contrario, era il pensiero a dover garantire l’esistenza della realtà. Iniziava il passaggio dall’oggettivismo al soggettivismo. Ancora non era un vero e proprio relativismo, ma si era presa la cosiddetta “piega” per arrivarci. E’ ovvio che un tale passaggio ha avuto anch’esso delle motivazioni antropologiche. Dal momento che l’essenza della modernità è una sorta di antropocentrismo radicale, occorreva, per sostanziare il delirio di onnipotenza umana, fare man bassa della realtà e promuovere a criterio una sorta di volontà soggettiva onnipotente.

Ebbene, tutto questo ha avuto dei riflessi nel campo dell’arte. Fino a quando dominava il realismo filosofico, pittoricamente s’impose la descrizione. Quando poi il realismo filosofico, con annessa metafisica, fu fatto fuori, l’elemento descrittivo venne gradatamente abbandonato per far posto al delirio immaginifico, fino alla nascita dell’astrattismo completo. Ciò che conta, insomma, non è più la realtà, ma ciò che il pensiero vede, immagina, crea ed eventualmente distrugge.

Piaccia o non piaccia, dietro ogni errore –e possiamo aggiungere: dietro ogni bruttezza- c’è sempre una cattiva filosofia… e anche una cattiva antropologia.

Ma bisogna aggiungere un’altra cosa. In tal modo l’arte (sedicente tale!) è divenuta una grande mistificazione. Come infatti si fa a giudicare quando un’opera è bella o meno senza criteri oggettivi? Senza questi, l’estetica è passata totalmente in mano ai critici, che ovviamente, secondo i loro interessi, a piacimento fanno il bello e il cattivo tempo… pardon: il bello e il cattivo quadro!


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