La Tappa: La bellezza della Croce di Cristo

Le tappe trattano argomenti importanti e perenni per la formazione cristiana attraverso il metodo de Il Cammino dei Tre Sentieri, ovvero l’unione della Dottrina (la Verità) della Vita Spirituale (la Bontà) e del fascino della Verità Cattolica (la Bellezza). All’interno delle singole tappe vi sono i passaggi, indicati con numerazione progressiva. 

(98 passaggi)

1

Il 14 settembre la Chiesa c’invita a ricordare la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Si tratta della celebre Esaltazione della Santa Croce.

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Iniziamo con una citazione tratta da La Ballata del Cavallo Bianco dello scrittore inglese, convertitosi al cattolicesimo, Chesterton (1874-1936):

Gli uomini dell’est scrutano le stelle per sognare eventi e trionfi,

ma gli uomini segnati dalla Croce di Cristo vanno lieti nel buio.

Gli uomini dell’est studiano le pergamene per conoscere i destini e la fama,

ma gli uomini che hanno bevuto il Sangue di Cristo vanno cantando di fronte le ingiurie.

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Cerchiamo di capire queste parole. Lo scrittore inglese ci presenta un’alternativa che è centrale nella vita. Egli dice che l’uomo ha una duplice possibilità dinanzi a sé: o scrutare le stelle “per sognare eventi e trionfi” o scegliere la Croce di Cristo per poter andare poi “lieti nel buio”

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Una precisazione: Chesterton per “uomini dell’est” non intende coloro che provengono effettivamente da tale direzione, quanto i pagani, essendo La Ballata del Cavallo Bianco un poema epico scritto nel 1911, per ricordare come il leggendario re Alfred difese la cristianità sconfiggendo nel IX secolo, nella Valle del Cavallo Bianco, dei barbari invasori, i Danesi di re Guthrum.

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Le parole che abbiamo letto prima sono della Vergine Maria che, secondo il poema, apparve a Re Alfred dopo che questi, inginocchiatosi, aveva rivolto alla Madonna questa domanda: In nome di questa piccola terra / di questo piccolo paese che conosco, / chiedo se ciò che ora, sarà per sempre, / o sei i nostri cuori si spezzeranno lieti, / vedendo alla fine il nemico fuggire? La risposta della Vergine fu dunque: Le porte del Cielo sono solo socchiuse,  (…) / il più rozzo villano può facilmente entrare silenzioso e veloce, / e arrivare dritto fino a me (…)/ Ogni uomo semplice che passi sui campi (…) / può ascoltare tra una stella e l’altra, / dall’uscio socchiuso dell’oscurità scesa,  (…) i discorsi che è Uno e Trino. Tuttavia se egli fallirà o vincerà / a nessun uomo saggio può essere detto. / (…) / Gli uomini dell’est studiano le pergamene per conoscere i destini e la fama, / ma gli uomini che hanno bevuto il Sangue di Cristo vanno cantando di fronte le ingiurie.

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Si tratta di un poema che ha una valenza profetica straordinaria per i nostri giorni. Chesterton, ricordando quei barbari invasori del IX secolo che volevano attaccare la cristianità, pensa all’arrivo di “nuovi barbari”, che, senza spade, ma con carta e penna, porteranno la mancanza di “desiderio”: “Tra molti secoli, tristi e lenti, io ho una visione, io so che i pagani ritorneranno (…) da questi segni li riconoscerete: da un cuore spezzato nel senso del mondo, dal desiderio che si spegne nel mondo.”

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Dunque, in questo caso, lo scrittore inglese, nell’alternativa presentata, pone due tipi umani: il barbaro e il cristiano.

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Ma torniamo all’alternativa che Chesterton immagina nella risposta della Vergine a re Guthrum. L’uomo che cerca di scrutare le stelle per “sognare eventi e trionfi” è il pagano, cioè colui che cerca il trionfo in se stesso, la soddisfazione della propria ambizione. L’uomo, invece, che sceglie la Croce di Cristo è ovviamente il cristiano che sa di non poter trovare in se stesso la chiave per capire il mistero della sua vita.

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C’è un’altra necessaria precisazione da fare: il “trionfo” di cui parla Chesterton non è la legittima ricerca di realizzazione. Avremo poi modo di capire che tale realizzazione non è possibile se non nella Croce di Cristo. Lo scrittore inglese per “trionfo” intende un falso trionfo, un apparente trionfo; come abbiamo già detto: la ricerca del mondo e il delirio del potere.

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Soffermiamoci sulla frase: Gli uomini segnati dalla Croce di Cristo vanno lieti nel buio.

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Prima di tutto Chesterton tiene a presentare un’alternativa nell’alternativa. Il primo tipo umano “scruta”, il secondo tipo umano “è segnato”. Il primo tipo umano cerca di trovare “scrutando nelle pergamene” il suo destino; il secondo tipo umano cerca di trovare il suo destino “bevendo il Sangue di Cristo”.

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Il primo tipo umano cerca nell’osservazione delle stelle la realizzazione del suo desiderio. Il secondo tipo umano è toccato, anzi: è toccato nella sua carne (Chesterton utilizza il verbo “segnare”: è segnato) da qualcosa che gli dà la possibilità di procedere “lieto nel buio”.

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Il primo tipo umano crede di trovare la risposta studiando qualcosa; il secondo tipo umano trova la risposta incontrando Qualcuno.

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Cosa vuol dire: “Andare lieti nel buio”? Si può procedere gioiosi nelle tenebre? Si può essere contenti quando il cammino sembra essere poco chiaro, se non addirittura completamente oscuro? Come è possibile questo?

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Chesterton, con queste parole, esprime in maniera straordinariamente poetica il Mistero della Croce. Chi sceglie la Croce di Cristo possiede la Risposta, ma non per questo conosce le risposte. Ovvero, chi sceglie la Croce di Cristo sa che tutto ciò che gli capita ha un senso, trova un significato in Dio e nel Suo sommo amore per gli uomini, ma non per questo riesce a capire i singoli perché. Anzi, molte volte questi singoli perché possono sfuggire e sembrare del tutto illogici. Certamente c’è la Risposta al perché della sofferenza dell’innocente, ma ciò non vuol dire che si abbia la singola risposta: perché proprio lui? Questo lo sa solo Dio.

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La Croce di Cristo, che è già un paradosso nel paradosso (l’uccisione ignominiosa di Dio –primo paradosso- che si è fatto veramente uomo –secondo paradosso-) offre l’unico paradosso possibile perché l’uomo possa amare la vita, cioè avere nei confronti di essa un atteggiamento positivo: procedere “lieti nel buio”.

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Ma per capire bene quanto ciò sia vero, cioè quanto, senza la Croce, la vita dell’uomo perda di significato, individuiamo almeno cinque motivi.

  • Il primo: La Croce di Cristo dà significato alla vita
  • Il secondo: La Croce di Cristo rende giustizia al tempo liberandolo da una prospettiva puramente quantitativa
  • Il terzo: La Croce di Cristo armonizza l’uomo con il reale
  • Il quarto: La Croce di Cristo abbellisce la vita
  • Il quinto: La Croce di Cristo attesta ancora di più la bontà di Dio

La Croce di Cristo dà significato alla vita

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Oscar Wilde (1854-1900) in De profundis cita una frase di William Wordsworth (1770-1850): la sofferenza è permanente, oscura e cupa e ha la natura dell’infinità.

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Sono parole vere. “La sofferenza è permanente”, essa infatti costituisce una costante della vita dell’uomo. E’ “oscura e cupa”: chi oserebbe negare la sua drammaticità?

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Ma dove le parole di Wordsworth sembrano dire qualcosa di ancora più vero è quando si afferma che la sofferenza avrebbe “la natura dell’infinità”. La sofferenza, infatti, se non risolta, s’impone come unico dato significativo dell’esistenza. “Significativo” nel senso di poter conferire un significato, e in questo caso si tratterebbe di un significato di completo fallimento. Se non risolta, infatti, la sofferenza ha il potere di nullificare tutto: qualsiasi gioia e qualsiasi sacrificio.

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Il grande problema dell’uomo non sta nel constatare la drammaticità della sofferenza quanto capire se è risolvibile e fino a che punto possa essere risolvibile.

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Qui entra in gioco inevitabilmente Dio. Ma c’è una difficoltà che è di molti: quella di dover coniugare l’amore e la bontà di Dio con la sofferenza nella vita dell’uomo. Se Dio esiste, perché tanto dolore? Perché Egli permette la sofferenza? Perché permette che muoiano innocenti, mentre molti, anche se si comportano male, vivono … e spesso vivono anche molto bene?

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Non esiste solo il cosiddetto ateismo teorico, la pretesa, cioè, di dimostrare l’inesistenza di Dio. Se esistesse solo questo tipo di ateismo, per i credenti non ci sarebbero problemi; non c’è posizione intellettualmente più sciocca di quella di voler dimostrare che Dio non esiste. Esiste purtroppo anche un altro tipo di ateismo, quello cosiddetto postulatorio, che verte, per l’appunto, sulla presunta impossibilità di conciliare la bontà e la giustizia di Dio con l’esistenza della sofferenza e dell’ingiustizia su questa terra. E questo tipo di ateismo, diciamocelo francamente, è molto più serio ed anche più ostico.

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Eppure c’è la possibilità di capire e di scoprire che l’esistenza del dolore non pregiudica affatto la bontà di Dio, anzi. Su questo punto solo il Cristianesimo ha la possibilità di rispondere. Procediamo con ordine.

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Il Cristianesimo dice che il male non è un valore, perché non creato da Dio, ma generato dal peccato, quello delle creature. Prima: Lucifero e gli altri angeli ribelli; poi: Adamo ed Eva.

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Questo male –che non è un valore- si distingue in due tipi: il male morale (il peccato) e il male fisico (la morte e la malattia). Mentre a Dio ripugna totalmente il male morale, potrebbe invece volere quello fisico. Ci spieghiamo meglio: Dio non può mai desiderare che un uomo commetta un peccato, può invece volere che l’uomo patisca la sofferenza per ragioni che a noi possono sfuggire ma che rientrano in un progetto salvifico da parte di Dio stesso. Gesù ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” (Luca 9,23). I gradi di perfezione sono molti, ma solitamente la teologia spirituale distingue tre tappe principali o vie: la via purgativa (“rinneghi se stesso”), la via illuminativa (“prenda la sua croce”) e la via unitiva (“mi segua”).

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Se è vero che Dio può solo permettere ma mai volere il male morale (cioè il peccato); è pur vero che Dio –per accidens– non solo può permettere ma anche volere il male fisico, e ciò per evitare il male morale o per correggere e ammonire. San Tommaso d’Aquino afferma che Dio, volendo sopra ad ogni cosa la sua bontà, rigetta il male morale che è ad essa direttamente contrario. Ma, relativamente agli altri mali, volendo tutto in ordine alla sua natura che è somma bontà, può anche volere il male di pena in ordine alla giustizia e il male naturale in ordine alla provvidenza.

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Dunque in ordine alla Provvidenza. Infatti, quanti trovano l’occasione di riflettere sulla propria vita solo nel momento del disagio? Tutti. Noi compresi. Nel celebre romanzo Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (1888-1948) si narra di un giovane prete che svolge la sua missione con grande tiepidezza; poi, nell’itinerario della sofferenza (un tumore), riuscirà a scoprire la bellezza della propria vocazione sacerdotale. Prima di morire dirà: “Tutto è grazia!”. Come per lui anche per molti, purtroppo, la malattia può essere una grazia per riflettere e capire, per evitare il fallimento della propria anima.

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Ecco il punto. La grande questione della sofferenza e della possibilità di coniugarla con l’amore di Dio interpella la fede, quella fede che, sbagliando, si dà spesso per scontata. Avere fede vuol dire fare in modo che il nostro intelletto accetti l’autorevolezza delle verità rivelate; e fra queste vi è anche e soprattutto il valore della vita eterna. Avere fede vuol dire credere che la vita inizi dal concepimento per non finire più. Ci crediamo? Se ci credessimo, capiremmo che tra il vivere trent’anni e salvarsi e il viverne cento e dannarsi, è molto meglio la prima possibilità. Dio di questo è sicuro.

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Poniamoci nella prospettiva di Dio. Possiamo ritenerlo cattivo se decide per la sofferenza qualora questa, per una sua creatura, possa essere l’unica possibilità di conversione? E’ forse cattivo il genitore che decide di dare uno schiaffo al figlioletto perché attraverso i soli rimproveri non capisce di non dover mettere le manine vicino alla presa elettrica? L’abate dice a Miguel Manara, protagonista dell’omonimo dramma dello scrittore franco-lituano Milosz (1877-1939): “Se tu sapessi quali cose l’uomo sa dire a Dio quando la sua carne si fa grido.”

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Ed ecco perché un Cristianesimo che volesse solo (“solo” e non “anche”) occuparsi della vita terrena e dei suoi problemi (la pace, la giustizia sociale, la fame nel mondo, ecc.) senza però occuparsi del vero problema (il peccato che impedisce la salvezza eterna), diventerebbe un “cristianesimo” contraddittorio se non addirittura ridicolo, perché incapace di coniugare l’infinito amore di Dio con la presenza della sofferenza nella vita degli uomini.

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Infatti, se il messaggio che dà il Cristianesimo attuale è quello di dire che i problemi di questo mondo sono quelli più importanti, allora perché Dio non fa nulla per debellare questi problemi? Se invece -come Dottrina di sempre insegna- i problemi più importanti sono quelli della salvezza dell’anima, allora si capisce perché Dio potrebbe anche permettere la sofferenza pur di salvare dal peccato.

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A proposito della questione della sofferenza, si possono individuare tre tipi di soluzioni: della distrazione, della concentrazione e del significato.

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La soluzione della distrazione è quella presente soprattutto nella cultura contemporanea. In un clima filosofico di nichilismo (cioè di negazione di qualsiasi valore) non si può dare alcun significato alla sofferenza. Essa è uno scandalo e basta. E’ un tabù. Non se ne deve parlare, perché ad essa non c’è risposta. Questa però è una soluzione poco umana. E’ proprio dell’uomo il non doversi distrarre da quelli che sono i suoi problemi fondamentali. Essere costretti a non pensare alla sofferenza vuol dire rinunciare a ciò che c’è di più vero dell’essere uomo: chiedersi il perché del proprio vivere.

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Poi abbiamo la soluzione della concentrazione. La sofferenza sembra essere qualcosa di brutto, ma bisogna convincersi che così non è. La sofferenza fa parte della vita; e tutto ciò che fa parte della vita è positivo. L’apparente negatività della sofferenza è data appunto dalla sua apparenza. Le religioni orientali, così come tutte le mentalità di origine gnostica, ritengono che la vita individuale non sia un valore; pertanto, tutto ciò che va a compromettere l’esistenza individuale svolgerebbe una funzione positiva.

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E finalmente la soluzione del significato. E’ quella della dottrina e dell’antropologia cristiane. La sofferenza non è un valore, perché è conseguenza del peccato; Dio non l’ha voluta, anzi anch’Egli l’ha subìta, perché ha subìto il peccato dell’uomo. Ma Dio, pur non avendo creato la sofferenza, è venuto a farne esperienza; è venuto ad accompagnare l’uomo nella drammaticità di questa esperienza.

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E’ questa la soluzione umanamente più vera. Da una parte, scongiura l’innaturale pretesa di considerare la sofferenza come un valore (infatti è valore la pazienza che dà la possibilità all’uomo di accettare la sofferenza conformandosi alla volontà di Dio, non la sofferenza in sé); dall’altra, evita l’errore di considerare la sofferenza come un tabù a cui non può esser dato alcun significato. Il significato, invece, c’è: non si è soli in questo dramma. Dio è il compagno di strada.

La Croce di Cristo rende giustizia al tempo liberandolo da una prospettiva puramente quantitativa

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L’edonismo è il cancro della modernità. In merito al cancro si può discutere su quali possano esserne le cause. Come “cancro”, l’edonismo è la malattia che si palesa, ma ovviamente è altro ciò che ne costituisce la causa. Cos’è l’edonismo? E’ la convinzione secondo la quale la vita debba essere finalizzata alla ricerca del piacere.

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Attenzione però: l’edonismo non va confuso con l’eudemonismo. Altra difficile parola che intende sì la ricerca del piacere, ma di un piacere che si armonizzi con la ragione e che possa essere raggiunto dalla ragione stessa. L’edonismo, invece, è la ricerca del piacere immediato, non ragionato, non valutato, puramente istintivo.

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L’edonismo, da questo punto di vista, è non solo la resa della ragione, ma il suo volontario rifiuto. L’edonismo è l’affermazione paradossale secondo cui l’uomo non debba essere più uomo, bensì debba totalmente rinnegare la sua natura per orientarsi verso un’implicita “bestializzazione”.

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Non c’è da stupirsi. La logica è logica e le cose non sarebbero potute andare diversamente. Eliminata la Croce di Cristo come chiave per capire la vita, non ha più senso che l’uomo si sacrifichi, non ha più senso che l’uomo sappia dominare se stesso …e non ha più senso che l’uomo vinca se stesso per essere se stesso.

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L’edonismo è il tratto più marcatamente “barbaro” e anche più marcatamente “pagano”. Le due definizioni possono non coincidere storicamente: i barbari erano tutti “pagani” (almeno inizialmente), ma non tutti i “pagani” erano barbari. Ma di certo coincidono nella sostanza e nell’approccio esistenziale.

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Si può essere barbari anche se si è in una dimensione di progresso tecnologico, perché la “barbarie” è data dal giudizio nei confronti del reale, non dall’eventuale non asservimento della natura.

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Chesterton –sempre lui- contesta una visione incontrovertibilmente storicista, per cui il trascorrere del tempo automaticamente segnerebbe il passaggio dalla “barbarie” alla “civiltà”. Egli tiene a sottolineare che in ogni epoca l’uomo è chiamato a scegliere tra due visioni della vita: l’appartenenza a un Dio che salva oppure il credere di fare di se stesso il proprio “salvatore”. Per cui –diciamo noi- si può essere “civili” anche con la spada e senza il telefono e si può essere “barbari” anche con l’aereo bombardiere e con il cellulare. Ne L’uomo eterno Chesterton scrive: Il barbarismo e la civiltà non sono palcoscenici successivi nel progresso del mondo.

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Ed ecco perché non c’è da stupirsi –anzi- che nella modernità, progressivamente, si realizzi una sorta di sempre più chiara “neopaganizzazione”.

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Chi sceglie la Croce di Cristo, indipendentemente dall’epoca in cui vive, indipendentemente se può giovarsi di un progresso tecnologico più o meno sofisticato, è sincero con se stesso scegliendo per se stesso il mistero vero della propria vita …pertanto sceglie la civiltà.

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Chi, invece, rifiuta la Croce di Cristo, sceglie o il delirio dell’autosufficienza o la completa irrazionale dimensione del non-senso …e quindi sceglie la barbarie.

La Croce come armonia dell’uomo con il reale

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Alcuni versi di Giuseppe Ungaretti (1880-1970) dicono: “Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia.” Con queste parole il poeta vuole esprimere un fatto che è indiscutibile: l’uomo ha bisogno di constatare un’armonia tra sé e il reale. Nel senso che l’uomo deve ritrovarsi nel reale. Non deve, cioè, giudicare la sua esistenza come qualcosa che sia fuori dal reale, perché a tale esistenza non si possa conferire un significato. Il non scorgere un’armonia tra vita e realtà causa fastidio. E’ il fastidio di dover scoprire fallita la propria vita: una scoperta che è un vero e proprio supplizio come deve ammettere Ungaretti.

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L’uomo aspira alla felicità, ma la felicità in questa vita non può essere alternativa alla sofferenza, perché questa (la sofferenza) è purtroppo ineliminabile. Piuttosto la vera felicità può essere solo alternativa alla disperazione. Ovvero la felicità possibile consiste nell’evitare la disperazione; e la disperazione è proprio la constatazione che non può esserci armonia tra vita e realtà. Armonia da intendersi nel senso che abbiamo indicato prima: come scoperta di un significato, come convinzione che la vita risponda ad un progetto, ad una ragione.

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Il discorso dell’armonia tra esistenza umana e realtà rimanda al dilemma fondamentale: l’uomo è gettato” nel mondo o invece la sua vita risponde ad un progetto di amore? E’ l’alternativa tra il dominio dell’irrazionalità o il dominio della razionalità. Tra il non-senso e il senso. Tra l’insignificato e il Significato. Benedetto XVI così disse ai giovani convenuti in San Pietro il 6 aprile del 2006: “Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale; la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità.”

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Eppure la stoltezza umana può raggiungere livelli enormi. Ovviamente si tratta di quella stoltezza che non è semplice incapacità (se fosse così, non sarebbe colpevole), quanto piuttosto accecamento volontario dell’intelligenza. Un accecamento funzionale a deliranti costruzioni ideologiche. Il celebre esistenzialista Albert Camus (1913-1960), dopo aver costatato l’assurdità della vita a causa del proprio nichilismo, afferma che tale assurdità possa addirittura essere un’occasione propizia affinché l’uomo ricostruisca un sapere nuovo ed inizi una vita nuova. Insomma, l’assurdo come opportunità. Che stupidaggine!

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Cesare Pavese (1908-1950), anch’egli incapace di scorgere un significato nell’assurdità della vita, è più onesto. La sua poetica è la dichiarazione di un fallimento: l’uomo non può essere felice nella constatazione dell’assurdo. L’unico esito è proprio il supplizio …per tornare ai versi di Ungaretti.

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Dunque, l’uomo anela all’armonia tra la propria vita e il reale. La risposta cristiana è proprio in tal senso. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) così scrive nel suo De diligendo Deo: La prima volta che ha operato, ha dato me a me stesso, ma la seconda volta mi ha dato sé, e dandomi sé mi ha restituito a me stesso.” Ovviamente si riferisce a Dio. Egli, creando l’uomo, ha dato l’uomo all’uomo; offrendosi sulla Croce ha dato all’uomo Se stesso e, dando Se stesso, ha fatto sì che l’uomo fosse restituito all’uomo.

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Soffermiamoci su questo concetto: Dio, morendo per l’uomo, ha restituito l’uomo all’uomo. Che vuol dire? Proprio ciò di cui abbiamo parlato prima. La Croce di Cristo è la possibilità di far sì che l’uomo scopra finalmente l’armonia tra la sua vita e il reale. La sofferenza, il dolore e la morte non sono più uno scandalo. O meglio: continuano ad esserlo sul piano dell’esito, nel senso che rimangono conseguenze del peccato originale e quindi non previste e non volute nel progetto originario di Dio, ma non lo sono più sul piano del vivere, nel senso che ad esse c’è una risposta.

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La Croce di Cristo è il faro che s’intravede tra le nebbie più fitte del vivere. E’ la luce che si può scorgere anche nella notte più buia. Gesù non è venuto a togliere la croce dalla vita dell’uomo, ma a renderla vivibile e capace di produrre frutti inimmaginabili: “Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16). Gesù è lì, alla testa della fila che sale sul calvario. Se Lui non ci fosse, cadremmo disperatamente sotto il peso insopportabile della croce. Invece Egli è lì e l’uomo può guardare Lui per farsi coraggio. Cristo fa da “scia”. Come accade nel ciclismo (l’esempio non vuole essere irriverente). Quando il capitano è in difficoltà e perde terreno da coloro che sono alla testa della corsa, i gregari lo attendono e gli fanno da “scia”, lo invitano a mettersi alle loro ruote per aiutarlo a recuperare terreno. Cristo fa lo stesso. Ci attende sulla salita. Vediamo lui …e scaliamo. Se non lo vedessimo, sarebbe la fine.

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Prima abbiamo citato Pavese non perché ciò che egli scrive costituisca una risposta convincente. Tutt’altro. La sua poetica è senza speranza: è il rifiuto della Risposta. Ma perché –come è stato già detto- è una poetica onesta. Egli fa capire che senza Risposta c’è solo il fallimento. Dice infatti ne Il mestiere di vivere che “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio stato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace.” Ecco che torna la questione dell’armonia. Pavese, con grande onestà intellettuale, afferma che non può esservi pace fin quando non si riesce a far “combaciare” il proprio stato, cioè la propria esistenza, con il “proprio destino”. E per “proprio destino” intende la comprensione del proprio essere nel mondo, di accorgersi cioè che c’è un fine per il proprio esistere.

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Ancor più vero è quando Pavese denuncia la stoltezza di una certa cultura libertaria per cui la vita sarebbe solo uno sperimentare situazioni sempre nuove. Quante volte si sente dire che l’uomo vive veramente solo quando prova, vede e sperimenta. Come se il criterio di giudizio fosse la prassi, l’azione. Pavese invece dice: “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi …” La vita è trovare se stessi, è trovare la propria posizione nel mondo. Combaciare con il destino è armonizzarsi con la realtà.

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La Croce di Cristo è dissolvimento di ogni non-senso. La Croce di Cristo, come dice san Bernardo, restituisce l’uomo a se stesso, perché è la vera e l’unica possibilità che l’uomo ha di capire se stesso, di riconciliarsi con sé, di realizzare l’armonia.

La Croce di Cristo abbellisce la vita

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La centralità della croce, che è l’essenza del Cristianesimo, rende più bella la vita. Seguite questo ragionamento.

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Come abbiamo detto prima, l’unica felicità che è possibile per l’uomo non è alternativa alla sofferenza, bensì alla disperazione. La sofferenza è ineliminabile dalla vita, l’unica cosa che possiamo fare è conferire un senso alla sofferenza, altrimenti c’è la disperazione. Oggi, la grande insoddisfazione umana sta nel fatto che non si ha un senso per vivere e quindi non si ha nemmeno un senso per soffrire e per morire. Gesù non è venuto a toglierci la croce ma per indicarci come portarla. Ricordiamolo ancora: “Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso (via purgativa), prenda la sua croce (via illuminativa) e mi segua (via unitiva).” (Matteo 16, 24).

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Un conto è sapere che la sofferenza ha un senso nell’economia della salvezza propria e degli altri; altro è sapere che non ha alcun senso. Un ammalato che è costretto nel suo letto, se deve convincersi che la sofferenza non ha senso, non riuscirà a cogliere più il significato del suo vivere in quel modo; ma se sa che con quella sofferenza può essere utile per sé e per gli altri, allora cambia tutto. Ciò spiega perché oggi, pur essendoci una sofisticata terapia del dolore rispetto al passato, vi è una maggiore domanda di eutanasia rispetto al passato. San Francesco d’Assisi (1182-1226) diceva: “Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto.”

La Croce di Cristo attesta ancora di più la bontà di Dio

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E finalmente l’ultimo punto. Dio guarda le cose sub specie aeternitatis, cioè nella prospettiva dell’eternità. Dio permette la sofferenza degli innocenti perché sa che questa non solo è un’occasione per la salvezza propria e degli altri, ma è anche un “nulla” rispetto all’immensa gioia del Paradiso.

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Oggi, diciamocelo francamente, siamo diventati tutti un po’ “pagani”: le preoccupazioni sembrano essere solo quelle terrene e sociali. Alziamo la voce non contro il peccato e l’empietà, ma al limite per evitare il nucleare e per la salvaguardia dell’ambiente. Quasi a convincerci che, tutto sommato, l’unica nostra possibilità di gioia sia su questa terra. E non ci rendiamo conto della contraddizione.

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Un annuncio cristiano che dimentichi la tensione verso l’eternità, per evitare di dare un’immagine troppo severa di Dio, finisce poi, paradossalmente, con l’ammettere davvero una possibile “cattiveria” di Dio. Se infatti il messaggio che implicitamente si trasmette è quello per cui la vera felicità è su questa terra, verrebbe allora da chiedersi: perché Dio permette che muoia un bambino e che rimanga in vita un delinquente?

Perché Dio ha scelto questa “strada”?

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Rimane ancora un interrogativo importante: perché Dio ha scelto la strada della Croce? Poteva Lui, l’Onnipotente, scegliere anche un’altra strada?

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Ci sono due tipi di risposta che non sono in contrasto bensì si completano fra loro.

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La prima risponde categoricamente “sì”: Dio avrebbe potuto scegliere anche un’altra strada. Lui è l’Assoluto, l’Onnipotente, dunque avrebbe potuto scegliere qualsiasi mezzo.

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La seconda, invece, pur non negando l’onnipotenza di Dio, mette in rilievo il fatto che Dio non è volontà assoluta, bensì volontà vincolata alla ragione. Dio, logicamente, prima di essere volontà è ragione. Dio è Logos.

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Da qui non solo l’esigenza di giustizia, per cui il peccato va colmato, e quindi l’ingiustizia sanata; ma anche la necessità della Redenzione e pertanto la necessità dell’Incarnazione, in quanto solo il sacrificio del Dio fattosi uomo può colmare l’infinito di un’offesa infinita perché perpetrata contro Dio, che è l’Infinito.

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Anche se, relativamente a questa questione, giustamente si dice che non sarebbe stato necessario l’estremo sacrificio di Cristo, perché già l’Incarnazione stessa, già un piccolissimo disagio in Cristo -per l’unione ipostatica– ebbe un valore infinito.

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Il Logos divino, però, è voluto arrivare fino all’estremo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.(Giovanni 15,13) L’amore estremo non può palesarsi se non nel massimo del sacrificio, cioè dell’offerta di sé.

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Qui ci sarebbe un discorso interessante da farsi. Dio, che non solo è somma verità, che non solo è somma bontà, è anche somma bellezza, sceglie anche la strada che sia esteticamente più bella. Un piccolo, nascosto, sacrificio del Verbo incarnato sarebbe bastato; ma Dio sceglie ciò che è più manifesto …per esigenza di giustizia e per esigenza di “bellezza”.

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La Croce di Cristo è la Bellezza dell’amore di Dio per l’uomo. Ed ecco perché il tentativo –da sempre- di costruire croci belle: dorate e piene di pietre preziose.

Arrivo

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Torniamo al paradosso di cui parla Chesterton: “ … gli uomini segnati dalla Croce di Cristo vanno lieti nel buio”.

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Agli amici de Il Cammino dei Tre Sentieri vogliamo ricordare una grande figura dei nostri tempi: Benedetta Bianchi Porro.

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Ella nacque a Dovadola, in provincia di Forlì, l’8 agosto del 1936. La sofferenza l’accompagnò sin dall’inizio: a tre anni fu colpita dalla poliomelite, la gamba destra non cresceva come l’altra. Vane le operazioni al “Rizzoli” di Bologna per cercare di dare alla bambina una camminatura normale. Anzi, ella era costretta a portare un busto ortopedico per sorreggere la spina dorsale.

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La sofferenza però non le tolse quella tipica gioia che caratterizza un’infanzia serena, trascorsa in vari luoghi (Dovadola, Forlì, Casticciano, Sirmione, Brescia) dove la famiglia si spostava o per fuggire alla guerra o per gli impegni del padre, ingegnere termale.

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Benedetta, a scuola, era sempre tra le prime della classe. Aveva un’intelligenza vivace e una grande tenacia. E fu proprio la tenacia che l’aiutò quando sopraggiunse un altro grave problema di salute: la sordità. Oltre alla scuola, Benedetta si dedicava anche ad altro: amava la musica, suonava il pianoforte, amava lo sport, stava bene con gli amici, tendeva a vestirsi con cura.

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Nel 1953 s’iscrisse all’università di Milano, alla facoltà di Medicina, anche se era ormai quasi del tutto sorda. Nel Natale del 1956 si manifestarono gravi sintomi alla vista. Nel 1957 fu lei stessa a diagnosticarsi la grave malattia che la colpì: neurofibratosi diffusa (morbo di Reklinghausen). Una malattia devastante che aggredisce il sistema nervoso centrale distruggendone ogni funzione. Benedetta, dopo aver perso l’udito e la vista, perse anche l’uso degli arti, l’olfatto e il gusto.

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Benedetta visse la sua sofferenza offrendo tutto al Signore, guidata dal suo direttore spirituale, don Elio Mori. Tra il 1962 e il 1963 compì due pellegrinaggi a Lourdes. Morì il 23 gennaio del 1964. La notte del 22 gennaio avvertì l’arrivo della fine. Chiamò l’infermiera e le disse: “Sto male, sto molto male. Ma non svegli la mamma. Lasciamola riposare per domani, perché domani io morirò.” E l’indomani morì: aveva appena ventisette anni.

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Negli ultimi mesi della sua vita ebbe anche la forza di scrivere molte lettere e dare coraggio a vari sofferenti. Nel 1993, Benedetta fu dichiarata venerabile.

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In una sua lettera Benedetta scrive: “Nel mio calvario non sono disperata. Io so che, in fondo alla vita, Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora a letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini… Le mie giornate non sono facili, sono dure ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio.”

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Parole che richiamano quelle di Chesterton. Riflettiamoci su: “Gesù … mi dà luce nel buio.” Benedetta afferma una contraddizione che in realtà non è tale. Lei dice di scoprire, grazie a Gesù, tanta luce nel buio. Certamente nel buio non può trovarsi la luce, perché il buio è annullato dalla luce. Eppure ciò che Benedetta dice non è una contraddizione. Non lo è sul piano della logica della Fede.

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Essere convinti che Dio è amore e che Dio stesso permette tutto ciò che accade (è la fede!), vuol dire che Dio, se permette, è per un suo disegno dando a tutti la grazia sufficiente per vivere la sofferenza (è ancora la fede!). Ma ciò non basta. Tutte queste convinzioni si legano ad un’altra, ovvero che nell’accettazione serena di ciò che Dio permette, vi è la salvezza per sé e per gli altri (ecco la logica della fede!).

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Torniamo alle parole di Benedetta. In questa prospettiva la contraddizione si dissolve: davvero nel buio si può scoprire la luce. Con la sofferenza non viene meno il buio, ma è pur vero che nella sofferenza si può scoprire la luce. E ciò che abbiamo detto prima.

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Qui il Cristianesimo è l’unica risposta vera. Come abbiamo già detto, ci sono tre modi con cui l’uomo si può rapportare alla sofferenza: il primo è di negativizzare la sofferenza rifiutandola totalmente, il secondo è di accettarla credendo che in realtà non sia davvero tale, il terzo è quello che unisce la negativizzazione ma anche l’accettazione.

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La prima e la seconda posizione confluiscono nell’illusione; l’illusione di credere che la sofferenza sia eliminabile (la prima posizione) e l’illusione di credere che la sofferenza sia una non-realtà (la seconda posizione). La terza posizione è quella più realista ed umanamente vera. La sofferenza di per sé non può essere amata, ma può esserlo per ciò a cui essa conduce.

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Quando Benedetta dice di scoprire la luce nel buio, non afferma una cosa inammissibile, ma ciò che davvero si può sperimentare nel momento in cui il Cristianesimo diventa vita, cioè quando la Croce di Cristo diviene l’unico significato vero ed imprescindibile dell’esistenza.

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Benedetta Bianchi Porro parla di luce. Invoca la luce, la scopre e la offre –lei che soffre- a tutti i sofferenti. E invece la cultura contemporanea –che pure rifiuta pregiudizialmente la sofferenza- odia la luce. Il dominio dell’oscuro, del cattivo gusto e dell’incomprensibile, che domina nelle manifestazioni artistiche più ricorrenti, non è casuale, ma l’esito di una posizione che odia la luce perché non vuole accettare l’unica Luce che è possibile nella vita dell’uomo: la Croce di Cristo.

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Come l’unica felicità non è alternativa alla sofferenza ma alla disperazione, così l’unica luce possibile è nell’esperienza del buio. Ciò vuol dire che l’uomo deve accettare il suo limite, la sua debolezza; deve tendere inevitabilmente verso l’esperienza del bisogno e verso la dimensione dell’umiltà.

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Ma se l’unica luce possibile è nell’esperienza del buio, allora non c’è risposta nella vita se non vivendo l’attesa della Gioia eterna.

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Torniamo da colui da cui abbiamo cominciato, Chesterton. Sempre ne La Ballata del Cavallo Bianco scrive: “I nostri monaci vanno col saio sotto la pioggia e la neve, ma dentro il cuore brucia il fuoco … anche le tragedie inesorabili, non renderanno muti gli uomini, che incessantemente domandano, perché questo è il modo dei cristiani, la tempra del guerriero, come quella del prete: lanciare i propri cuori oltre le certezze, per guadagnare ciò che il cuore desidera …”

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Il cristiano non è un codardo, è piuttosto colui che combatte per lanciare il suo cuore oltre le vane “certezze” del mondo per “guadagnare ciò che il cuore” davvero “desidera”. La sua arma è la Croce di Cristo.

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Quando don Camillo, per punizione, fu mandato dal vescovo in un paesino di montagna che poteva essere raggiunto solo a piedi, Peppone lo accompagnò con il suo camion fin dove arrivava la strada (a dieci chilometri). Peppone lo accompagnò perché il robusto prete della Bassa voleva portarsi con sé un oggetto a lui assai caro, ma molto pesante. Il sindaco comunista gli chiese conoscendo bene lo spirito d’assalto di don Camillo: “Volete portarvi con voi un mortaio da 81?” No –rispose il parroco- è un’arma molto più potente”. Poi lo vide scendere, andare dietro il camion dov’era l’oggetto trasportato e afferrare il pesantissimo crocifisso che si era portato da quella che era stata la sua chiesa. Se lo mise sulle spalle. E sotto una fitta pioggia, che salendo si trasformava in neve, Peppone vide don Camillo inerpicarsi per la sua nuova destinazione. Sotto al peso di quella sua “arma” a cui non voleva rinunciare.

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L’arma di ognuno di noi è la Croce di Cristo … molto più potente di un mortaio da 81!


Dio è verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri

 


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1 Comment on "La Tappa: La bellezza della Croce di Cristo"

  1. Grazie!!!
    Parole da meditare ogni giorno e che infondono Speranza.
    Non come quelle del mio parroco che mi sono sembrate scandalose e mi hanno lasciato tanto freddo nel cuore: durante un’omelia, ha raccontato di non aver saputo consolare una donna sofferente, ha detto che non aveva le parole, che proprio non si può nulla di fronte alla sofferenza…
    Che Dio invece ci aiuti!
    Ave Maria!

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