SOSTA – Chi non sa trovare la quiete nella propria stanza, non può abitare il mondo

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


Blaise Pascal (1623-1662) scrive: “…tutta la infelicità dell’uomo viene da una sola causa: non sapersene star quieto in una stanza, cioè non saper abitare la propria dimora, non conoscere il senso del proprio io nel mondo.”

Giustamente il filosofo e matematico francese mette in relazione lo stare tranquillo (lui utilizza giustamente il termine “quieto”)  nella propria stanza con il conoscere il senso del proprio io nel mondo.

Può sembrare strano che ci possa essere una relazione tra stanza e mondo. La stanza è qualcosa di piccolo, di particolare, forse anche di angusto (se è stretta); il mondo invece è qualcosa di grande, di enorme, di arioso, di universale. Ma Pascal dice che non sa stare tranquillo (quieto) nella sua stanza chi non riesce a capire il proprio senso all’interno del mondo.

Uno dei più famosi storici delle religioni, il rumeno naturalizzato statunitense Mircea Eliade (1907-1986), il cui pensiero generale è solo in parte condivisibile, giustamente parla di uno stato d’animo antropologicamente universale, ovvero che ogni uomo tende a fare del proprio luogo di appartenenza il “centro del mondo”. C’è anche una sensazione psicologica che attesta una cosa del genere. Quando si fa un viaggio verso luoghi molto lontani, spesso si ha la sensazione di vedere gli abitanti del posto come chi è più o meno costretto a vivere ai margini del mondo. Sensazione che è appunto dettata dal fatto che inconsciamente si è portati a considerare il proprio luogo di appartenenza come “centro del mondo”.

Pascal dice pertanto una cosa giusta affermando che non si sopporta di vivere la propria stanza quando non si sa perché si è nel mondo, e di conseguenza quando non si ama il proprio essere nel mondo.

Insomma, possiamo dire che chi non ama il particolare non può amare l’universale. Come giustamente afferma anche nella buona teologia spirituale quando dice che chi non ama se stesso, non può amare anche gli altri. Tant’è che chi odia se stesso, e ha un atteggiamento negativo nei confronti del suo esistere, tenderà, se non  proprio ad odiare gli altri, almeno a disinteressarsi degli altri, leggendo tutto in una chiave pessimistica, dissolutiva e negativa. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), nel suo De Diligendo Deo lo spiega molto bene affermando che mai il sano e cristiano amore verso se stessi può sparire nella salita verso l’unione con Dio, tanto è vero che nell’ultimo grado individua l’amore per se stessi non più per se stessi, ma unicamente per Dio.

Amare la propria stanza, dunque, non per la propria stanza, ma per capire bene chi si è. Per capire che è partendo dal proprio piccolo, dal proprio intimo rapporto con Dio, che poi si può intelligentemente aprire la porta, uscire e vivere il mondo.

Non c’è altra possibilità. Quando si pretende di vivere il mondo senza la propria casa, senza le proprie radici, senza la propria storia, allora si diventa degli sconosciuti a se stessi e si finisce con il dovere offrire agli altri solo il proprio non-essere: le proprie inquietudini.

La propria disperazione!


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