Una notte di Natale nel bosco (di Peter Rosserger)

Peter Rosegger nacque il 31 luglio 1843 da una famiglia di poveri contadini che viveva in un maso sull’Alpe di Krieglach, in Stiria lungo la strada che porta al santuario di Mariazell. Morì il 26 giugno 1918.


Nella nostra stube, accanto alla stufa ricoperta di argilla grigia, c’era un piccolo sgabello di acero. Era sempre pulito e lucido, dato che, come gli altri mobili della stube, veniva strofinato ogni sabato con la sabbia fine del ruscello e con le trecce di paglia. In primavera, in estate e in autunno, lo sgabello se ne stava abbandonato nel suo angolo; ma, all’imbrunire, la nonna se lo tirava vicino, vi si inginocchiava e recitava le preghiere della sera.

All’arrivo del tardo autunno con le sue lunghe sere, quando i famigli spaccavano legna resinosa per farne fiaccole, e le fantesche, assieme alla mamma e alla nonna, filavano lana e lino, e quando arrivava il tempo dell’Avvento, durante il quale, in queste serate di lavoro, venivano raccontate antiche fiabe e si cantavano inni religiosi, allora io me ne stavo sempre seduto su questo sgabello vicino alla stufa.

Ma le lunghe notti d’Avvento da noi erano sempre troppo corte. Poco dopo le due, iniziava ad esservi animazione in casa. Su, nel sottotetto, si sentivano i servi che si vestivano e andavan qua e là, e in cucina le ragazze spaccavano legna e accendevano il fuoco. Poi tutti andavano sull’aia a trebbiare. Anche la mamma si era alzata e aveva acceso il lume della stube; subito dopo si alzava il babbo. Si erano vestiti non proprio da lavoro ma nemmeno da festa. Poi la mamma diceva qualche parola alla nonna, che era a letto, e quando anch’io, destato dal rumore, dicevo qualcosa, esclamava per tutta risposta: «sta’ zitto e dormi!».

Poi i miei genitori accendevano una lanterna, spegnevano il lume nella stube e uscivano. Sentivo ancora la porta esterna che si apriva, vedevo il chiarore della lanterna passare tremolando attraverso la finestra, udivo lo scricchiolìo dei passi nella neve, l’uggiolare del cane alla catena. Dopo, tutto si acquietava; si poteva percepire solo il continuo e regolare battere dei trebbiatori. Poi mi riaddormentavo.

Il papà e la mamma si recavano per la funzione del Rorate alla chiesa parrocchiale, che distava parecchie ore di cammino. Li accompagnavo nei miei sogni, sentivo le campane della chiesa, sentivo il suono dell’organo e il canto dell’Avvento: «Ave Maria, lucente stella del mattino!». E vedevo i candelieri sull’altar maggiore, e le statue degli angeli, che stavano sopra, spiegavano le loro ali d’oro e volavano per la chiesa; uno, che se ne stava con la tromba sopra il pulpito, usciva fuori sui boschi di pini e andava suonando per tutto il mondo l’annuncio che il Salvatore era vicino. Quando mi svegliavo, i raggi del sole erano entrati già da tempo dalla finestra, e fuori luccicava la neve.

La mamma si aggirava di nuovo nella stube e sbrigava le faccende in veste da lavoro. Anche il letto della nonna, vicino al mio, era già rifatto; la nonna veniva dalla cucina e mi aiutava a infilarmi i pantaloni; l’acqua fredda con cui mi lavava la faccia mia faceva ridere e piangere allo stesso tempo. Fatto questo, mi inginocchiavo sul mio sgabello e recitavo con la nonna la preghiera del mattino:

Alzarsi presto dal letto nel nome di Dio benedetto: del suo trono nel cospetto, supplicar con cuore schietto che ci mandi tre angioletti: il primo ci guidi a ben fare; il secondo ci dia da mangiare; il terzo ci salvi da malattia dell’anima e del corpo. E così sia.

Dopo questa preghiera, facevo colazione; quando avevo finito, veniva la nonna con una secchia di rape che dovevamo sbucciare insieme. Mi sedevo vicino a lei, sul mio sgabello. Ma la nonna non era mai del tutto contenta del mio lavoro: la buccia la tagliavo troppo grossa, oppure ne lasciavo dei pezzi sulle rape. Se mi capitava di  tagliarmi un dito, e mi mettevo subito a piangere, la nonna mi apostrofava rudemente: «Con te è una vera croce! Bisogna proprio buttarti fuori, nella neve!». Poi mi fasciava la ferita con indicibile tenerezza e attenzione.

Così passavano i giorni dell’Avvento. Io e la nonna parlavamo sempre più spesso della festa di Natale e del Bambino Gesù che sarebbe venuto presto. Più si avvicinava la festa, più la casa si animava. I famigli facevano uscire la bestie dalla stalla, mettevano strame fresco e risistemavano le staccionate e le mangiatoie. Il garzone di stalla strigliava i buoi fino a renderli lisci; il garzone del foraggio metteva nella paglia più fieno del solito e ne preparava un gran mucchio nel fienile. La mungitrice faceva la stessa cosa. La trebbiatura era già finita alcuni giorni prima, perché si pensava che il rumore avrebbe profanato l’imminente solennità.

In tutta la casa si lavava e si strofinava; anche nella stube le ragazze venivano con secchi d’acqua, strofinacci e scope. Ero contento di tutto questo lavare, perché mi piaceva che tutto venisse messo a soqquadro: le immagini dei santi appese in alto nell’angolo della tavola e l’orologio brunito della Selva Nera, con le sue campanelle metalliche e le altre cose che io potevo vedere solo a distanza, tutto veniva tirato giù e portato vicino a me, cosicché io potevo osservare gli oggetti molto più attentamente. Certo, non era permesso toccare niente; perché ero ancora maldestro e correvo il rischio di fare dei danni. Ma vi erano dei momenti in cui, in questo continuo lavare e strofinare, nessuno mi teneva a bada. In uno di questi momenti mi arrampicai dallo sgabello sulla panca, e dalla panca alla tavola, che era spostata: su di essa era posato l’orologio della Selva Nera. Mi avvicinai all’orologio, i cui pesi poggiavano sulla tavola, guardai attraverso uno sportellino laterale nel congegno di ottone tutto pieno di polvere, toccai le laminette della ventola e vi misi dentro anche le dita per vedere di farle andare. Ma non giravano. Alla fine spostai una levetta e subito il congegno si mise in moto rumoreggiando paurosamente. Alcune ruote andavano lentamente, altre più velocemente, e la ventola girava così in fretta che a malapena si poteva vedere. Ero spaventato in maniera indescrivibile: dalla tavola alla panca, dalla panca allo sgabello, rotolai sul pavimento bagnato e sporco, e qui la mamma mi afferrò per il vestito. Il rumore dell’orologio non voleva cessare e alla fine la mamma mi prese con ambedue le mani, mi portò nell’ingresso e mi spinse fuori dalla porta, in mezzo alla neve, e mi chiuse fuori.

Rimasi lì come annichilito: sentivo lo sfogo della  mamma, che dovevo aver fatto arrabbiare molto, sentivo le ragazze che pulivano e ridevano, e ancora, sempre, il rumore dell’orologio. Dopo esser rimasto lì per un bel po’ a singhiozzare senza che nessuno venisse a consolarmi, presi il sentiero segnato sulla neve, passando per il prato e il campo, verso il bosco. Non sapevo dove volevo andare, non ci pensavo proprio. Non ero ancora giunto al bosco che sentii dietro di me un fischio acuto. Era il fischio della nonna. «Dove vuoi andare, stupido», gridò, «guarda che se vai nel bosco ti prende la donna dei licheni!».

A queste parole tornai subito verso casa, perché avevo molta paura della donna dei licheni. Però non andai dentro, rimasi nel cortile, dove il papà e due garzoni stavano tirando fuori dal recinto un maiale, per ucciderlo. Al sentire la bestia che gridava in maniera straziante e al vedere il sangue che la ragazza raccoglieva in una pentola, dimenticai l’accaduto, e quando il papà tolse la pelle del maiale davanti alla casa, io ero di nuovo lì vicino e tenevo l’estremità della pelle che egli, con un grosso coltello, separava via dalla carne lardosa. Dopo che erano state tirate fuori le interiora, la mamma versò l’acqua nel mastello e mi disse: «Va via, se no ti spruzzi tutto!».

Da queste parole mi resi conto che la mamma non era più arrabbiata con me, che tutto andava bene; e quando arrivai nella stube per scaldarmi, tutto era tornato al solito posto. Il pavimento e gli assiti delle pareti erano umidi e ben puliti, e l’orologio col suo tic-tac stava di nuovo appeso alla parete: il suo rumore si percepiva più forte e chiaro nella stanza rimessa a nuovo.

Finalmente si terminò di lavare, strofinare, ripulire. La casa divenne più tranquilla, quasi silenziosa: la vigilia di Natale era arrivata. Il pranzo della vigilia non venne consumato nella stube, ma in cucina, utilizzando come tavola l’asse per fare la pasta; ci si sedette intorno all’asse e si prese il poco cibo consentito dal digiuno in silenzio, ma con solennità. La tavola nella stube era coperta con una tovaglia candida, e davanti alla tavola c’era il mio sgabello, sul quale la sera, mentre si faceva buio, la nonna si inginocchiava e pregava sottovoce.

Le ragazze si aggiravano silenziosamente per la casa, preparando il loro vestito da festa. La mamma mise in una grande pentola dei pezzi di carne, vi versò su dell’acqua e mise la pentola sul focolare. Camminavo in punta di piedi per la stube e non sentivo altro che l’allegro scoppiettìo del fuoco nella cucina. Guardai i miei calzoni da festa, il giubbetto e il cappellaccio di feltro che stava appeso a un chiodo nella parete, e stetti ad osservare attraverso la finestra l’oscurità incombente.

Se il tempo non fosse stato cattivo, sarei potuto andare in chiesa, la notte, col capo dei famigli. E il tempo era buono, e non sarebbe neanche venuto troppo freddo, disse il papà, perché c’era la nebbia sui monti. Immediatamente prima della cerimonia dell’incenso, durante la quale la casa e il cortile, secondo l’antica usanza, vengono benedetti con l’acqua santa e il fumo dell’incenso, il papà e la mamma ebbero un piccolo litigio. Era venuta la donna dei licheni per augurare buone feste, e la mamma le aveva regalato per Natale un pezzo di carne. Proprio per questo papà era un po’ arrabbiato; egli aiutava i poveri, e non raramente dava loro più di quanto le nostre condizioni permettessero, ma alla donna dei licheni, secondo lui, non bisognava fare la carità.

La donna dei licheni non era originaria del posto e si aggirava senza permesso nei boschi, e raccoglieva licheni e radici, accendeva il fuoco e dormiva nelle capanne in rovina dei carbonai. Inoltre se ne andava mendicando per i masi; voleva vendere il lichene e, poiché non faceva affari, imprecava alla vita. I bambini nei quali fissava il suo sguardo si spaventavano terribilmente, e molti si ammalavano; stregava anche le mucche, al punto che esse facevano latte rosso. Se qualcuno le faceva del bene, lei gli andava dietro per alcuni minuti dicendogli: «Dio ti renda merito mille e mille volte in cielo!». A chi la prendeva in giro o la offendeva in qualche modo, diceva invece: «Che tu vada nel più profondo dell’inferno!».

La donna dei licheni veniva spesso a casa nostra e sedeva volentieri sul prato verde o sulla traversa della staccionata, malgrado il furioso abbaiare e uggiolare del cane, che si mostrava particolarmente ostile nei suoi confronti. Ma la donna dei licheni stava seduta davanti alla casa fino a quando la mamma le portava una scodella di latte o un pezzo di pane, o tutt’e due le cose. A mia mamma piaceva che la donna le augurasse il cielo con tutti quei «Dio la rimeriti».

Il papà invece non attribuiva alcun valore a quel che diceva, fosse una benedizione o una maledizione. Anni prima, in un villaggio lontano, si costruiva un edificio scolastico. La donna era venuta nella zona col marito, e aveva prestato aiuto nella fabbrica, finché lui non era morto a causa dello scoppio di una mina. Da quel momento, lei non aveva più lavorato, e nemmeno se ne era andata. Si aggirava qua e là, senza che nessuno potesse capire che cosa facesse e che cosa volesse. Di lavorare, non era più capace; sembrava che fosse malata di mente. Il giudice aveva già più volte espulso dal comune la donna dei licheni, ma lei era sempre ritornata. «Non sarebbe ritornata tutte le volte, – diceva mio padre – se da queste parti non avesse trovato da vivere mendicando. Così rimarrà qui, e quando sarà vecchia e malata dovremo anche curarla. Questa è una croce che ci siamo caricati noi stessi sulle spalle». La mamma non ribatteva niente a queste parole, ma, quando veniva la donna dei licheni, le faceva la solita elemosina: e quel giorno anche un po’ di più, in considerazione della grande festività.

Per questo vi era stata tra il papà e la mamma quella piccola discussione, che però finì non appena due famigli arrivarono in casa portando l’incenso e l’acqua benedetta. Dopo la cerimonia dell’incenso, il papà posò un candeliere sulla tavola: le schegge di pino potevano essere accese soltanto in cucina. Si cenò nuovamente nella stube. Durante il pasto, il capo dei famigli raccontò storie di Natale. Dopo cena, la mamma cantò una pastorale. Io ascoltavo di solito con gran piacere questi canti, ma quel giorno pensavo sempre che dovevo andare in chiesa, e volevo mettermi subito il vestito delle feste. Mi dissero che ci sarebbe stato ancora tempo per questo; ma alla fine la nonna si lasciò vincere dalle mie preghiere, e mi vestì.

Il capo dei famigli indossò con gran cura il costume di gala, perché dopo la funzione di mezzanotte aveva in mente di non tornare a casa, ma di aspettare la mattina in paese. Verso le nove, anche le ragazze e gli altri famigli furono pronti, e accesero al candeliere una fiaccola. Io mi misi vicino al capo dei famigli. I miei genitori e la nonna, che restavano a custodire la casa, mi aspersero con l’acqua benedetta, dicendomi di stare attento a non cadere e a non prendere freddo. Così ci mettemmo in cammino. C’era molto buio. La fiaccola, che il garzone di stalla reggeva davanti a sé, gettava lungo il cammino un gran cerchio di luce rossastra sulla neve, sulla staccionata, sui cespugli e sugli alberi. Questa luce rossa, interrotta dalle nostre ombre, mi faceva paura, e io mi aggrappavo tremando al capo dei famigli, che alla fine mi disse: «Senti qua, devi lasciar stare la mia giubba. Come faccio, se me la strappi?». Il sentiero ad un certo punto si fece angusto, tanto che fummo costretti a camminare l’uno dietro l’altro: ero contento però di non essere l’ultimo, perché mi ero messo in testa che l’ultimo potesse essere lasciato in mezzo a pericoli sconosciuti. Soffiava una brezza tagliente, e grosse faville ardenti, staccandosi dalla fiaccola, volavano lontano, e anche se cadevano sulla dura crosta di neve, bruciavano ancora per un tratto. Scendendo per l’aperta campagna, tra macchie di cespugli e boschi, eravamo arrivati a un torrente che io conoscevo molto bene. Scorreva in mezzo a un prato nel quale d’estate andavamo a falciare il fieno. D’estate, il torrente faceva un gran rumore, ma in quel momento non si sentiva niente perché era ghiacciato. Passammo vicino a un mulino. Qui presi un grande spavento, perché alcune scintille andarono a cadere sul tetto: ma il tetto era coperto di neve, e le scintille si spensero.

Finalmente ci allontanammo dal torrente. Il sentiero saliva attraverso il bosco. Qui la neve non era alta, ma in compenso era poco compatta. Arrivammo poi ad una strada larga, dove potemmo camminare affiancati. Si udivano di quando in quando i sonagli di una slitta. La torcia del ragazzo di stalla si era consumata fino in fondo, e così egli ne accese un’altra che aveva di scorta. Sulla strada si vedevano anche altri lumi, grandi fiaccole rosse che fiammeggiavano vicine, come galleggiando da sole nel buio; dietro di esse, a tratti, si distingueva una faccia, e  ancora altre facce delle persone che andavano in chiesa. Anche su altri monti e su altre alture vedevamo delle luci: così lontane, però, che non potevamo renderci conto se si muovessero o fossero ferme. Si andava avanti. La neve scricchiolava sotto i nostri piedi; nei punti dove il vento l’aveva spazzata via, affiorava, scuro e nudo, il suolo: così duro, che le nostre scarpe vi risuonavano distintamente. La gente parlava e rideva molto: ciò mi appariva poco opportuno nella notte di Natale. Pensavo sempre alla chiesa, a come sarebbe stata bella a mezzanotte, con la musica e la funzione solenne. Dopo aver camminato per un lungo tratto sulla strada, passammo vicino ad alcuni alberi sparsi, e ad alcune case; poi andammo di nuovo attraverso campi e boschi. All’improvviso, sulle cime degli alberi, udii un suono. Volli stare in ascolto, ma non sentii più nulla. Subito però si fece udire di nuovo, e più forte di prima: era lo squillo della campanella piccola del campanile. I lumi, che avevamo visto sui monti e nella valle, si fecero sempre più fitti, e tutti sembravano fluttuare verso la chiesa. Anche le luci delle lanterne pendevano vicine come stelle, mentre la strada si animava sempre di più. Alla campana piccola subentrò una più grande, che continuò a suonare fino a quando fummo quasi nei pressi della chiesa. Allora era proprio vero quel che diceva la nonna: a mezzanotte le campane cominciano a suonare, e suonano, suonano fino a che non arrivano in chiesa dalle valli lontane quelli delle ultime baite. La chiesa sorge su un’altura coperta di betulle e di abeti neri; attorno ad essa si stende il piccolo camposanto, circondato da un muretto basso. Poche case nella valle. Quelli che arrivavano alla chiesa, spegnevano le

fiaccole affondandole nella neve. Solo una fiaccola, infilata tra due pietre nel muro del cimitero, continuava ad ardere. La campana grande suonava ora a tocchi lenti e cadenzati.

Dalle finestre della chiesa, alte e strette, pioveva una luce chiara. Volevo entrare, ma il capo dei famigli disse che c’era ancora tempo, e rimase lì fuori a parlare e a ridere con gli altri giovanotti, caricandosi la pipa. A un certo punto, le campane si misero a squillare tutte insieme. Nella chiesa l’organo cominciò a suonare. Entrammo. Appariva tutto diverso rispetto alle altre feste. Le candele che ardevano sull’altare erano come stelle candide e sfavillanti; il tabernacolo dorato mandava fuori raggi fulgidi.

La lampada perpetua era rossa. La parte alta della chiesa era così buia, che a stento si poteva distinguere la bella decorazione della navata. Gli uomini, con le loro figure scure, sedevano sui banchi o stavano in piedi vicino ad essi; le donne, avvolte negli scialli, tossivano. Alcuni avevano davanti a sé delle candele: con il libro in mano, si unirono al canto quando dal coro fu intonato il Te Deum. Il capo dei famigli mi condusse, lungo le due file di banchi, vicino ad un altare laterale, dove c’era già molta gente. Poi mi sollevò su uno sgabello fino ad una teca di vetro illuminata da tre candele che stava tra due cime diabete; non l’avevo mai vista, venendo in chiesa con i miei genitori. Il capo dei famigli mi disse piano nell’orecchio: «Guarda il presepio, adesso». Mi fece star su ritto, e io guardai attraverso il vetro. Allora si avvicinò una donnetta dicendomi sottovoce: «Se stai lì a guardare, bisogna che qualcuno ti spieghi». E così lei mi spiegò le cose che c’erano nella teca. Tranne la Madonna, con la testa avvolta in un velo blu che scendeva fino ai piedi, tutti gli altri personaggi erano vestiti come contadini dei vecchi tempi. Anche San Giuseppe portava calze verdi e pantaloni di pelle fino al ginocchio. Nella mangiatoia c’era il Bambino Gesù tutto nudo.

Finito il Te Deum, il capo dei famigli mi tirò giù dallo sgabello. Prendemmo posto in un banco. Poi venne il sacrestano ad accendere tutte le candele che c’erano nella chiesa. Tutti, anche il capo dei famigli, trassero dalla tasca una candelina e l’accesero, fissandola sul banco. Si fece allora così chiaro, che si poterono vedere le decorazioni del soffitto. Su nel coro venivano accordati i violini, le trombe e i timpani. Quando suonò la campanella alla porta della sacrestia, il parroco con paramenti sfavillanti si avviò all’altare lungo il tappeto purpureo, accompagnato dai chierichetti e da quelli delle lanterne a vento, con la mantellina rossa. Nello stesso momento, dall’organo uscì una cascata di suoni, i timpani si misero a rullare, le trombe a squillare. Saliva il fumo dell’incenso, avvolgendo tutto l’altar maggiore colmo di luci.

Così ebbe inizio la Messa solenne, a mezzanotte, tra raggi di luce, musiche e suoni. All’offertorio, tutti gli strumenti tacquero; solo due voci bianche cantarono una dolce pastorale. Durante il Benedictus, un clarinetto e due flicorni modularono una ninna-nanna lenta e sommessa. All’ultimo vangelo si udirono nel coro il cuculo e l’usignolo, come se fosse tempo di primavera. Avvertivo profondamente nel mio cuore la solennità della Santa Notte, ma non mi abbandonavo all’entusiasmo; rimanevo serio, calmo, pervaso di religiosa emozione. E mentre sentivo la musica, pensavo al papà, alla mamma e alla nonna che erano a casa: adesso si inginocchiano attorno alla tavola, e pregano al lume di candela; oppure dormono, c’è buio nella stube, e solo si sente battere l’orologio; profonda è la quiete sui monti coperti di boschi, e la Notte Santa si spande per tutto il mondo.

La funzione era alla fine, e le candele venivano spente ad una ad una. Il sagrestano, con il cappuccetto di latta sulla lunga asta, girava di nuovo per la chiesa spegnendo le candele alle pareti, davanti alle immagini e agli altari: si sentiva l’odore di cera delle candele spente. Solo quelle dell’altar maggiore rimasero accese, finché dal coro risuonò la festosa marcia finale, mentre la gente si pigiava per uscire dalla chiesa. Fuori, malgrado la nebbia fitta che era scesa dai monti, non era più così buio come prima di mezzanotte. Doveva essere spuntata la luna; nessuna fiaccola veniva più accesa. Batté l’una, ma il maestro di scuola suonò la campana dell’Ave Maria per la mattina di Natale. Gettai uno sguardo alle finestre della chiesa: non c’erano più tutti quei lumi di festa; solo si distingueva la luce fioca della lampada del Santissimo.

Quando volli attaccarmi di nuovo alla giacca del capo dei famigli, questi non c’era più. C’erano invece degli estranei, che parlando tra di loro si avviarono subito verso le loro case. Il mio accompagnatore doveva essere più avanti. Mi affrettai sorpassando parecchia gente per poterlo raggiungere presto. Correvo, per quanto me lo consentivano le mie piccole gambe. Passai per un bosco buio, per campi sui quali soffiava un vento così pungente, che io, pur essendo accaldato, non sentivo più il naso e le orecchie. La gente che era per la strada si disperdeva qua e là, ed io ero solo, e non ero riuscito a raggiungere il capo dei famigli. Pensai che potesse essere rimasto dietro di me, e decisi di affrettarmi verso casa. Sulla strada c’erano delle macchie nere: i carboni delle fiaccole che la gente aveva scosso durante il cammino verso la chiesa. Mi facevano paura i cespugli e gli arbusti che emergevano dalla nebbia ai margini del sentiero: decisi di non guardarli, ma li vedevo lo stesso. Giravo gli occhi da tutte le parti, per paura che mi venisse incontro un fantasma. Ero giunto al sentiero che dalla strada doveva portarmi giù attraverso il bosco, all’altra valle. Lo imboccai, affrettandomi tra gli alberi dai lunghi rami. Le cime stormivano forte, e di quando in quando venivano giù vicino a me delle falde di neve. Qua e là era ancora così buio, che a malapena riuscivo a schivare i tronchi degli alberi. Avevo smarrito il sentiero. Dapprima fu più o meno la stessa cosa, in quanto la neve era molto bassa e il terreno abbastanza uniforme; ma gradualmente si fece più scosceso, e sotto la neve si inciampava nella sterpaglia e nell’erica. I fusti degli alberi non si ergevano più regolari, ma sparsi; alcuni erano curvi, altri con le radici scoperte cercavano ove appoggiarsi, altri giacevano a terra in un groviglio di rami. Non avevamo visto niente di tutto questo, venendo da casa. Riuscivo a malapena ad andare avanti, e dovevo liberarmi dai cespugli e dalla ramaglia. Spesso la neve cedeva, e le punte dell’erica mi arrivavano fino al petto. Mi rendevo conto di aver perso il sentiero giusto, ma se fossi arrivato a valle, avrei potuto risalire lungo il torrente, e così alla fine sarei arrivato per forza al mulino e ai nostri prati.

Falde di neve mi cadevano nelle tasche della giacca, neve si attaccava ai pantaloni e alle calze, e l’acqua mi correva giù per le scarpe. Sulle prime, arrampicandomi sul pendio e districandomi dai cespugli, ero stato preso dalla stanchezza; ma ora anche la stanchezza era scomparsa. Non badavo più alla neve, non facevo più caso alla sterpaglia che spesso mi sbatteva ruvidamente sulla faccia. Andavo in fretta, sempre più avanti. Anche la paura dei fantasmi era scomparsa. Non pensavo ad altro che alla valle e alla nostra casa. Non sapevo di quanto mi fossi inoltrato nella boscaglia. Mi sentivo bene in gamba; la paura mi spingeva avanti. Improvvisamente mi si parò dinanzi un burrone. Nel fondo c’era una nebbia grigia dalla quale emergevano le punte di alcuni alberi. Intorno a me il bosco si era rischiarato, sopra la mia testa c’era sereno, e in cielo era spuntata una mezzaluna. Di fronte, e lontano sullo sfondo, si ergevano montagne sconosciute, a forma di cono. Sotto, in basso, doveva stendersi la valle con il mulino; mi pareva di udire il fragore del torrente, ma era invece lo stormire degli alberi. Andavo a destra e a sinistra cercando un passo che mi portasse giù. Trovai un punto in cui credetti di poter scendere, lasciandomi andare su un ghiaione in mezzo ad arbusti di ginepro. Ciò mi riuscì per un tratto. Ma sarei forse precipitato oltre una parete a picco, se non fossi riuscito a bloccarmi appena in tempo, afferrandomi ad una radice. Adesso non potevo più andare avanti. Mi lasciai andare a terra sfinito. Là in fondo vi era la nebbia con le nere punte degli alberi. Non udivo nient’altro che il frusciare del vento. Non sapevo dove mi trovavo; se fosse venuto un capriolo avrei chiesto a lui la strada: nella notte di Natale le bestie parlano la lingua degli uomini.

Mi sollevai per cercar di arrampicarmi di nuovo sul ciglione. Ma scivolavo nel ghiaione, non riuscivo ad andare avanti. Mi facevano male le mani e i piedi. Allora, con calma, mi alzai, chiamai più forte che potei il capo dei famigli. La mia voce tornò indietro dai boschi e dalle pareti rocciose, prolungata e indistinta. Poi non udii più che lo stormire degli alberi. Il gelo mi trapassava le membra. Ancora una volta gridai il nome del capo dei famigli. Nient’altro che un’eco prolungata. Allora fui sopraffatto da una grande paura. Mi misi a chiamare in fretta – un nome dopo l’altro – i miei genitori, la nonna, tutti i famigli e le fantesche della nostra casa. Poi cominciai a piangere da far pietà. Il mio corpo gettava una lunga ombra obliqua giù sul pietrame. Andavo avanti e indietro aggirandomi attorno alla parete a picco.

Pregavo il Bambino Gesù che venisse a salvarmi. La luna era alta nel cielo scuro. Alla fine, non avevo più la forza né di piangere, né di pregare, e nemmeno di muovermi. Mi rannicchiai tremando su una pietra e pensai: adesso voglio dormire, questo è soltanto un brutto sogno, e quando mi sveglio, sarò a casa oppure in cielo. In quel punto, udii uno scricchiolìo sopra di me tra i ginepri, e subito mi resi conto che qualcosa mi toccava e mi sollevava. Volevo gridare, ma non potevo: la voce era diventata come di ghiaccio. Per la paura, tenevo gli occhi quasi chiusi. Le mani e i piedi erano paralizzati, non potevo muoverli. Mi pareva che tutta la montagna fosse cullata insieme a me. Quando mi riebbi e mi svegliai era ancora notte. Giacevo sulla soglia della mia casa, e il cane abbaiava furiosamente. La persona che mi aveva fatto scivolare giù sulla neve battuta batteva vigorosamente alla porta col gomito. Io avevo riconosciuto questa persona: era la donna dei licheni. La porta si aprì e la nonna si precipitò su di me dicendo: «Gesù, eccolo qua!».

Mi portò al caldo nella stube, ma poi di nuovo nel vestibolo, dove mi fece sedere su una cassapanca. Poi uscì dalla porta, facendo dei fischi acuti. Era sola in casa. Quando il capo dei famigli era tornato dalla chiesa e non mi aveva trovato in casa, e quando anche gli altri erano tornati senza di me, tutti erano andati fuori per il bosco e nella valle, e di là verso la strada e in tutte le direzioni. Anche mia mamma era andata con loro: dappertutto si fermava a chiamare il mio nome a gran voce. Dopo che la nonna si convinse che non mi avrebbe più fatto male, mi riportò al caldo nella stube, dove mi levò le scarpe e le calze: erano tutte di un pezzo, gelate fino ai piedi. Uscì di nuovo e fece un paio di fischi. Poi portò in casa un mastello pieno di neve, nel quale mi fece affondare a piedi nudi. A contatto con la neve, sentii alle punte dei piedi un dolore così violento, che mi misi a gridare. Ma la nonna diceva: «Questa è una bella cosa, se ti fa male, perché vuole dire che i piedi non sono congelati». Dopo poco, l’aurora rosseggiò sfavillante attraverso i vetri. La gente, poco alla volta, tornava a casa. Alla fine tornò il papà, e proprio per ultima, quando il rosso disco del sol era sorto sull’Alpe di Wechsel (la nonna aveva fischiato infinite volte), arrivò la mamma. Si avvicinò al lettino dove ero stato adagiato, a fianco del quale sedeva il papà. Le era andata giù la voce a forza di chiamare. Disse che dovevo dormire, e coprì la finestra con un panno, perché il sole non mi battesse sulla faccia. Ma il papà pensava che non dovevo ancora dormire: voleva sapere come mi fossi allontanato dal famiglio senza che questi se ne fosse accorto e che direzione avessi preso. Io raccontai come avessi sbagliato strada e come mi fossi inoltrato nella boscaglia. Quando dissi della luna, dei boschi neri, dello stormire del vento e del precipizio roccioso, subito il papà rivolgendosi alla mamma, disse sottovoce: «Moglie, ringraziamo Dio che è qui con noi. E’ stato al picco di Troll!».

Dopo queste parole, la mamma mi diede un bacio sulla guancia, cosa che faceva solo di rado; e se ne andò, coprendosi la faccia col grembiule. «Bene, ragazzaccio, e come sei arrivato a casa?» mi chiese il papà. La mia risposta fu che non lo sapevo, e che dopo esser stato sballottato a lungo nel sonno, mi ero trovato sulla porta di casa, e che accanto a me c’era la donna dei licheni. Il papà mi fece ancora delle domande su questi particolari, ma io risposi sempre le stesse cose. Poi mi disse che sarebbe andato in chiesa, perché era Natale, e che io dovevo dormire. Credo di aver dormito molte ore perché, quando mi svegliai, fuori cominciava a far buio. Vicino al letto sedeva la nonna, e accennava ogni tanto di sì, appisolandosi. Dalla cucina veniva lo scoppiettìo della legna che ardeva sul focolare. Più tardi, quando tutti si radunarono per la cena, a tavola sedeva anche la donna dei licheni. Durante la Messa del mattino, era rimasta accovacciata sulla tomba del marito, nel camposanto della chiesa. Il papà, uscendo dalla Messa, si era avvicinato a lei e l’aveva accompagnata a casa nostra. Di ciò che era accaduto durante la notte non si riuscì a saper altro da lei, se non che era andata a cercare Gesù Bambino nel bosco. Poi venne vicino al mio letto, e mi guardò. I suoi occhi mi fecero paura.

Nella parte posteriore della nostra casa c’era una stanza piena di oggetti fuori uso e di ragnatele. Questa stanza fu data come abitazione alla donna dei licheni: mio papà vi portò anche un forno, un letto e una tavola. Così la donna rimase con noi. Vagava ancora spesso per i boschi, portando a casa il lichene, o si recava alla chiesa, per stare sulla tomba del marito. Di qui non aveva la forza di andarsene per tornare dalle sue parti, dove del resto sarebbe rimasta sola e spaesata come dappertutto. Della sua storia, non fu possibile saperne di più. Noi pensavamo che in passato fosse stata felice, e che il dolore per la perdita del marito le avesse tolto la ragione. Non c’era nessuno che non le volesse bene, perché era contenta di tutto e non faceva male a nessuno. Solo il cane non la lasciava mai in pace: quando lei andava sull’aia, latrava dando furiosi strattoni alla catena. Ma l’intenzione dell’animale era ben diversa da quel che si poteva pensare.

Un bel giorno la catena si ruppe: il cane si gettò sulla donna dei licheni, le saltò mugolando al petto, e le leccò le guance.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri


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