L’ENCICLOPEDIA APOLOGETICA – Medioevo e Tradizione (apologetica storica)

MEDIOEVO E TRADIZIONE

Il Medioevo ha un concetto dinamico di Tradizione. D’altronde il Cristianesimo stesso impone un tale concetto. Il Cristianesimo, infatti, se non è storicismo è pur sempre attenzione alla storia: la storia non è la Rivelazione bensì il “luogo della Rivelazione”.[1]

Nani sulle spalle di giganti

C’è una famosa frase della Scuola di Chartres molto conosciuta che dice: “Siamo nani sulle spalle di giganti”. Una frase che non poteva non nascere nel medioevo.

Analizziamola.

L’affermazione siamo nani è la constatazione della propria piccolezza, è un’attestazione di umiltà. Attestazione fondamentale perché la vera sapienza non può che scaturire dalla consapevolezza del proprio limite, anche conoscitivo. Non a caso Socrate diceva che l’inizio della vera conoscenza è proprio sapere di non sapere.

L’affermazione sulle spalle di giganti sta a significare che per conoscere di più, per poter sapere qualcosa in più rispetto alle generazioni precedenti bisogna –appunto- far tesoro di queste generazioni; sfruttarle fino ad essere sulle loro “spalle”. Solo così si potrà guardare ancora più in là, cioè oltre l’orizzonte.

In questa espressione della Scuola di Chartres vi è tutto il concetto corretto di tradizione. “Corretto”, perché purtroppo non è infrequente dare a questa parola (“tradizione”) un significato che corretto non è, ovvero considerarlo come qualcosa di cristallizzato, di fossilizzato: la tradizione come pura staticità. Invece la vera tradizione è tutt’altro. Anzi, si può dire che non vi è nulla di più dinamico del concetto di tradizione. Accettare la tradizione vuol dire essere consapevoli dell’importanza di ciò che viene tramandato, di considerarlo un tesoro che non si può rifiutare; ma nello stesso tempo di sapere sfruttare ciò che si riceve per trasformarlo in lievito per generare cose nuove. Appunto: “Siamo nani sulle spalle di giganti”.

Un corretto concetto di Tradizione

Prima abbiamo detto che una frase di questo tipo poteva nascere solo nel medioevo. Ed è così. Anzi, proprio il fatto che il medioevo abbia incarnato meglio lo spirito della tradizione ci permette di capire più facilmente quel corretto concetto della tradizione stessa a cui abbiamo già fatto cenno.

Se prendiamo in considerazione la cultura medioevale (ci riferiamo principalmente ai secoli del cosiddetto “basso medioevo”) ci accorgiamo che in essa l’interesse verso l’antico non si traduceva in un’ingenua imitazione. Facciamo un esempio di carattere filosofico: san Tommaso d’Aquino. Questi riprende Aristotele (in realtà non riprende solo Aristotele, ma adesso non è il caso fare precisazioni a riguardo) non per copiarlo, bensì operando un sano discernimento: accetta ciò che ritiene vero e rifiuta ciò che ritiene falso. Il tutto poi lo assembla e lo condisce con il suo indiscutibile genio. Scrive la famosa medievista Regine Pernoud: (…) il Medioevo non ha ignorato l’antichità; Orazio, Seneca, Aristotele, Cicerone e molti altri vengono studiati e citati frequentemente, e i principali eroi delle letterature antiche, Alessandro, Ettore, Piramo e Tisbe, Fedro e Ippolito, ispirano a loro volta gli autori medievali; (…); sopra tutti il Medioevo amò profondamente Virgilio, testimoniando in ciò un gusto indiscutibile, poiché Virgilio fu forse il poeta latino degno di questo nome. Ma se si vide allora nell’Antichità un serbatoio di immagini, di storie e di sentenze morali, non si giunse sino al punto di magnificarla come un modello, come il criterio di ogni opera d’arte; si ammise che era possibile fare altrettanto bene, e meglio; la si ammirava, ma ci si guardava bene dall’imitarla.”

Altra cosa furono l’Umanesimo e il Rinascimento

Non sarà più così quando finirà il medioevo e inizierà quel periodo che siamo soliti definire “umanistico-rinascimentale”. Allora l’antico, non sarà più un tesoro da “sfruttare” ma una reliquia da conservare e da “venerare”. Ecco perché, mentre l’atteggiamento medioevale si può definire tradizionalista, quello umanistico-rinascimentale, lo si deve invece definire archeologista, cioè di pura ricerca del passato al fine di conservarlo “sotto-vuoto”.

In realtà –e qui veniamo ad un punto molto importante- la spiegazione di questo diverso modo di rapportarsi all’antico che distingue la cultura medioevale da quella umanistico-rinascimentale si spiega grazie ad un motivo ben preciso e facilmente individuabile. L’uomo medioevale, pur avendo ammirazione per il mondo antico, sapeva bene che a questo mondo mancava ancora qualcosa e che questo qualcosa non era una sorta di accidente, bensì la Sostanza-di-tutte-le-sostanze, la Sapienza-di-tutte-le-sapienza, cioè Cristo. L’uomo del periodo umanistico-rinascimentale iniziava invece a non essere più convinto di questo. La sua fede cristiana si affievoliva, ma soprattutto si affievoliva il suo giudizio cristiano sul mondo, sulla politica, sulle cose e anche ovviamente sull’arte e sulla cultura in genere.

[1] Nel medioevo non si riscontra soltanto tensione escatologica nei confronti del futuro. L’approccio al futuro non è soltanto meramente religioso; anzi, spesso è la Rivelazione ad essere utilizzata a scopo di “apertura” ed approfondimento del tempo di là da venire. Scrive un recensore del testo di Raffaello Morghen, Dante profeta. Tra la storia e l’eterno, jaca Book, Milano 1990: “Morghen in questo testo mostra come nell’opera dantesca si legga ‘la trama  dei massimi problemi soggiacenti a tutta la tradizione dell’Occidente cristiano’. In particolare Morghen mette a fuoco l’escatologia religiosa di Dante – e la sua adesione al modello profetico delle Scritture – che rappresenta comunque un fatto nuovo ed unico nella cultura medievale aperto, per certi versi, sul mondo moderno, anche se quest’ultimo ne è stato piuttosto il dissolvimento che la prosecuzione.”

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