Rubrica a cura di Corrado Gnerre
Scrive Matteo Carletti su libertaepersona.org:
“Se c’è un’immagine intimamente legata all’Inquisizione, è proprio la tortura. Infatti, nell’inconscio collettivo, essa riassume e simboleggia (insieme al rogo!) tutta la storia di questa istituzione. Feroce, sadica, con i suoi cavalletti, il suo supplizio della corda, la torcia infiammata e cento modi nuovi di tortura», così lo storico Leo Moulin (“L’Inquisizione sotto inquisizione”).
Quanto spesso ci è giunto dalla storia dell’Inquisizione è, spesso, la descrizione della sua violenza e crudeltà perpetrata attraverso i più perversi metodi di tortura, rappresentati su e giù per l’Europa in decine e decine di “musei della tortura”. Niente di più falso! “Oggi sappiamo che l’Inquisizione – sostiene lo storico americano Thomas Woods – non fu affatto così aspra come la si è dipinta in passato, e che il numero di individui portati al suo cospetto fu assai minore di quello, esagerato, un tempo accettato”. Non è che si voglia per forza tirare l’acqua verso il proprio mulino, “questa è la conclusione – prosegue Woods – chiara e netta, cui sono giunti i migliori e più recenti studi”. Ma veramente la tortura era qualcosa di estraneo al mondo dell’Inquisizione? Partiamo con ordine. La tortura non è un’invenzione dell’Inquisizione medievale. «Nel IX secolo, Papa Nicola I – ci ricorda sempre Moulin – aveva dichiarato che questo metodo di inchiesta “non era ammesso né dalle leggi umane né dalle leggi divine”. Fu lo sviluppo del diritto romano nel XIII secolo che riportò questa pratica, all’inizio nella giustizia secolare (Codice Veronese 1228; Costituzioni Siciliane di Federico II, 1231), e poi nella giustizia inquisitoriale, nel Mezzogiorno della Francia, verso il 1243. Papa Innocenzo IV non ne autorizzò l’uso che nel 1252, decisione confermata in seguito dai Papi Alessandro IV (1259) e Clemente IV (1265). Fu tuttavia stabilito che la tortura dovesse sempre essere applicata senza che l’integrità fisica o la vita dell’accusato fossero messe in pericolo – “citra membri diminutionem et mortis periculum”». Secondo i manuali degli inquisitori la tortura, dunque, doveva arrestarsi prima di infliggere ferite sanguinanti (la corda o il cavalletto erano gli unici strumenti consentiti) e non doveva produrre alcuna diminuzione nell’efficienza fisica del torturato. Non solo, giovani e anziani erano esclusi da questa pratica che doveva essere eseguita sempre sotto controllo di un medico. Nel volume “Processi alla Chiesa” a cura di Franco Cardini viene ricordato che la tortura “non deve porre l’imputato in pericolo di morte” e che essa “può essere impiegata soltanto contro quanti sono già fortemente indiziati e deve essere dosata secondo la gravità del crimine”. Sempre l’autorevole medievalista Molulin ci ricorda che “il supplizio non era permesso, che per stabilire la colpevolezza; a tal segno che, se l’Inquisitore poteva raggiungere in altro modo la prova giuridica, doveva fare a meno della tortura. Il suo dovere era di evitarla il più possibile; egli non vi si decideva che dopo aver utilizzato tutti gli altri mezzi e atteso a lungo. Solo quando fosse persuaso che il sospettato negasse sistematicamente, e in questo caso soltanto, lo avrebbe destinato al supplizio; ma, anche allora, egli doveva esortarlo fino all’ultimo minuto, cioè doveva ritardare la tortura il più possibile“. Anche nei tempi d’esecuzione le disposizioni erano molto accurate: la tortura non poteva superare la mezz’ora e non poteva essere ripetuta. Ciò che interessava il tribunale dell’Inquisizione (che aveva giurisdizione soltanto sui diritti di fede) era giungere alla certezza della colpa e, dunque, alla verità, alla quale si poteva giungere solo dietro confessione dell’accusato. La tortura aveva proprio la funzione di far confessare il reo, con la condizione (assolutamente non secondaria) che l’eventuale confessione fosse ripetuta identica senza tortura. È questo il motivo per cui gli inquisitori non ne facevano largo uso, perché “i deboli sotto tortura avrebbero confessato qualsiasi cosa, laddove i «duri» vi avrebbero resistito facilmente. […] La cosa poteva dunque dar luogo a ritrattazioni senza fine, a tutto discapito dell’unica cosa che interessava gli inquisitori: la verità” (R. Cammilleri, La vera storia dell’Inquisizione). Lo specialista Bartolomé Benassar, che si è occupato dell’Inquisizione più dura, quella spagnola, parla di un uso della tortura “relativamente poco frequente e generalmente moderata, e il ricorso alla pena capitale, eccezionale dopo il 1500”. Anche per la storica moderna de La Sapienza, Anna Foa, il fatto che l’Inquisizione non mandasse mai assolti i suoi inquisiti è una leggenda. “In realtà – sostiene la storica – nei processi d’Inquisizione le condanne a morte sono una piccola proporzione, inferiore al 10 per cento”. Numero non irrilevante se si tiene in considerazione l’alto numero di processi portati avanti dall’Inquisizione. “Questo era dovuto non al fatto che l’Inquisizione era particolarmente clemente – prosegue la Foa – ma al fatto che il suo obiettivo primario non era la condanna a morte, ma la confessione e la ritrattazione degli eretici”. La leggenda nera sull’Inquisizione e in particolare sulle sue torture, rappresenta uno dei cavalli di battaglia della “vulgata popolare” anticattolica nata con la Riforma e proseguita con il secolo dei lumi. Ancora oggi per Franco Cardini “crociate, inquisizione, caccia alle streghe e conquistadores sono di nuovo gli obiettivi storici d’una polemica decrepita l’armamentario della quale non riesce nemmeno a rinnovarsi alla luce delle nuove e più qualificate ricerche”.
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