SOSTA – C’è una bellezza nella Regalità sociale di Cristo?

Cosa significa per la vita dell’uomo la Regalità sociale di Cristo? Ha questa verità delle ripercussioni sul piano del vivere? Vediamo.

Leggiamo una bella frase di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936): “L’uomo non è un pallone che vola verso il cielo né una talpa intenta solo a scavare nella terra, ma è simile ad un albero, le cui radici sono nutrite dalla terra, mentre le cime più alte sembrano quasi toccare le stelle.” Stando a queste belle parole, l’uomo non è un pallone pieno di elio (quelli che si vendono alle feste patronali per far felici i bambini), uno di quei palloni che salgono-salgono allontanandosi quanto più possibile dalla terra; l’uomo non è nemmeno una talpa, semicieca, intenta a scavare per trovare solo nella nuda ed umida terra il suo sollievo. No. L’uomo, secondo Chesterton, non è questo. Almeno l’uomo che vuole essere davvero uomo. Questi è piuttosto un albero le cui radici sono nutrite dalla terra mentre la cima sembra quasi toccare le stelle. Lo scrittore inglese è come se vedesse una sorta di “longilineità” nell’uomo. L’uomo è altissimo. “Altissimo” perché da una parte tocca la terra, dall’altra “tocca” le stelle. Non sappiamo se Chesterton ci abbia pensato (può darsi di no), ma ci piace pensare che lo scrittore inglese abbia non a caso utilizzato il termine “stelle” piuttosto che il termine “cielo”. Il significato, infatti, qualora avesse utilizzato il termine “cielo”, sarebbe potuto essere totalmente diverso se si pensa al racconto biblico della Torre di Babele. Perché quella famosa Torre fu distrutta da Dio? Perché i Babilonesi volevano edificare una costruzione la cui cima “toccasse” il cielo. “Toccare il cielo” vuol dire avere la pretesa di eguagliare Dio, di sostituirsi a Lui, di fare di se stessi il proprio Dio. “Toccare le stelle”, invece, significa un’altra cosa. Le stelle sono in alto, sono vicine al cielo, ma non sono il cielo così come tradizionalmente lo s’intende. “Toccare le stelle” vuol dire tendere verso Dio, anelare al suo incontro, orientarsi verso di Lui sapendo che, senza di Lui, non si può vivere … non nullificarlo pretendendo di prendere illusoriamente il suo posto. E allora Chesterton vuol dire questo: da una parte l’uomo è preoccupato da quelli che sono i problemi di tutti i giorni; dall’altra deve trattare questi problemi nella consapevolezza che egli è fatto soprattutto per il Cielo. E’ fatto per guardare in alto.

Una piccola riflessione sul “guardare in alto”. L’uomo è l’unico “animale” (espressione che a noi ovviamente non piace) che fa funzionare completamente la rotazione cervicale da permettergli di guardare bene in alto, di porre il suo volto orizzontalmente al cielo per poterlo osservare bene. Il cane, la scimmia -per esempio- non fanno questo movimento.

Fin qui la frase di Chesterton. Ora prendiamo in considerazione altre due frasi famose, certamente più famose di quella dell’ideatore di padre Brown. Sono due frasi che hanno un punto in comune con quella già citata: il riferimento al cielo. La prima è di William Shakespeare (1564-1616): “Ci sono più cose in cielo e in terra che non nella tua filosofia, o Orazio.” La seconda è di Immanuel Kant (1724-1804): “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.”

La frase di Shakespeare ci piace molto. Andrebbe spedita a tutti i professori di filosofia per capire cosa davvero sia la filosofia, ovvero non il tentativo razionalistico di includere la complessità della reale nel proprio pensiero, bensì lo stupore della conoscenza possibile di un reale il cui mistero sovrasta di gran misura le capacità comprensive dell’uomo.

La frase di Kant, invece, non ci piace affatto. E’ pericolosa. Indubbiamente nel filosofo tedesco vi era anche -a livello intenzionale- l’idea di esprimere un collegamento tra l’uomo e la grandezza e la bellezza del cielo. Voleva, a livello intenzionale, collegare la coscienza individuale con l’infinito del cielo; ma –appunto- solo a livello intenzionale. In realtà la celebre frase di Kant dice una cosa ben precisa: la coscienza morale è completamente svincolata dalla dimensione dell’infinito, perché questa –secondo Kant- non può partire da presupposti metafisici. Il fondamento morale non può essere più nel “cielo stellato”, intendendo per “cielo stellato” la prospettiva divina e quindi Dio come “causa prima” secondo l’impostazione aristotelica. Nella frase di Kant c’è una netta separazione. Kant recide totalmente. “Cielo stellato” da una parte e “coscienza morale” dall’altra: realtà completamente separate.

Shakespeare invece prende le distanze dalla frase di Kant (“prende le distanze” ovviamente in un senso “fantastorico” perché il drammaturgo inglese è vissuto ben due secoli prima del filosofo di Konisberg). Egli, infatti, dice che la verità delle cose non sta nel pensiero umano. Ora, se la verità delle cose non sta nel pensiero umano, vuol dire che la legge morale sta al di fuori della coscienza morale. La coscienza è il “luogo” in cui riconoscere una legge che è esterna, non il “luogo-fondamento” di tale legge.

Torniamo alla frase di Chesterton, cioè la frase da cui siamo partiti. L’uomo di Chesterton è come se idealmente riprendesse le parole di Shakespeare. Dal momento che la verità non sta nell’uomo, bensì nel “cielo e nella terra”, il vero uomo deve essere nel “cielo e nella terra”. Il vero uomo non deve essere né una “palla” sganciata dalla terra, né tantomeno una talpa talmente immersa nella terra da non pensare al cielo. Il vero uomo deve “distendersi”, deve “allungarsi” in maniera tale da avere i piedi ben piantati a terra, come le radici degli alberi maestosi, ma anche con la cima che è così alta che sembra “toccare” le stelle.

Qui non si tratta né di separare il cielo dalla terra, che sarebbe poi la prospettiva kantiana che è un’ulteriore conferma del laicismo, che già in Cartesio aveva trovato un suo importante propagatore. Infatti, il laicismo è considerare la vita senza fare spazio a Dio. Si tratta piuttosto di capire che il cielo e la terra sono al di sopra di ogni intellezione umana (Shakespeare), per poi capire che l’uomo, il vero uomo, deve “allungarsi” per conservare il radicamento nella terra, “toccando” però le stelle del cielo. Unendo, cioè, il cielo e la terra, compenetrando il naturale nel soprannaturale e viceversa. Questo solo l’uomo lo può fare. Nessun animale ne sarebbe capace. Solo l’uomo, indipendentemente dalla sua altezza fisica, può diventare un gigante, come –appunto- quegli alberi giganteschi che hanno radici profondissime e cime che “accarezzano” le stelle.

Non è un caso che il tempo in cui maggiormente si è creduto alla Regalità Sociale di Cristo abbia partorito la figura della Cattedrale gotica: una massa enorme di marmo radicata a terra, ma tutta orientata verso il Cielo. Una figura che esprime un importante ma vero paradosso: la pesantezza emblematica (qual è quella del marmo) che diviene tanto leggera da levitare verso il Cielo. Un levitare verso il Cielo che non nega la terra, un radicamento nella terra che non nega il Cielo, ma che –anzi- trova la sua ragion d’essere nel Cielo.

La Regalità Sociale di Cristo non è né riduzione alla terra né astrazione spiritualista e settaria di negazione totale della terra, bensì convinzione che la terra possa già vivere il Cielo.


Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri


Vuoi aiutarci a far conoscere quanto è bella la Verità Cattolica?

CONDIVIDI

Be the first to comment on "SOSTA – C’è una bellezza nella Regalità sociale di Cristo?"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*