SOSTA -Nella poetica di Leopardi c’è una domanda “religiosa”?

Gli studiosi individuano tre pessimismi in Leopardi. Il pessimismo soggettivo (o empirico), il pessimismo storico e il pessimismo cosmico.

Il pessimismo soggettivo sarebbe legato alle condizioni familiari e fisiche del Leopardi. Il poeta, constatando i suoi malanni, sarebbe caduto in una visione pessimistica della vita. Crediamo però che Leopardi fosse troppo intelligente per farsi condizionare da un tal tipo di pessimismo. Infatti, tanto nella Lettera al De Sinner del 1832 quanto nel Dialogo di Tristano e di un amico, Leopardi tiene a precisare che le sue convinzioni sull’esistenza umana nascerebbero dall’osservazione della realtà e non dalle dolorose esperienze di vita.

Il pessimismo storico è invece più serio. Leopardi aderì al sensismo con la sua visione materialistica dell’uomo, ma prese le distanze dall’illuminismo che pur aveva generato il sensismo. L’illuminismo, infatti, aveva un’essenza utopica, convinto che la Storia avrebbe portato automaticamente ed incontrovertibilmente ad un progresso. Leopardi rifiuta questa ingenua convinzione. Anzi,  riconosce quanto le aspettative illuministiche siano fallite. Leopardi scrive: “Solo la natura è grande, mentre la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira.” 

Ed eccoci al pessimismo cosmico, ovvero a quel pessimismo che possiamo anche definire “esistenziale”. L’uomo non riesce a trovare risposte adeguate al suo vivere. Così il poeta scrive alla sorella Paolina dopo aver capito che il suo trasferimento a Roma non gli aveva risolto il problema della noia: “La felicità umana è un sogno; il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè di lontano.”  Già a vent’anni scriveva: “Sono stordito del niente che mi circonda… Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di sedere sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte… Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma si affanna e lacera come un dolore gravissimo…” 

Partendo da quest’ultimo pessimismo, si può capire come, se nella poetica del Leopardi non si può trovare una risposta religiosa, senz’altro però si può trovare una domanda religiosa. Vediamo perché. Prendiamo la poesia Il sabato del villaggio. In essa Leopardi “gioca” su un fattore piscologico comune: la vigilia sembra sempre più bella della festa. Leopardi vuole dire che la condizione dell’uomo è talmente drammatica che egli dovrebbe sperare di non realizzare mai i propri desideri per poter continuare ad illudersi di poter un giorno essere felice. Può succedere, infatti, che uno pensi: …quando avrò una casa più grande, sarò più felice. E fin quando ciò non avverrà, tale illusione lo riempirà. Poi, giunta la realizzazione del desiderio, ci si accorge che ciò che si attendeva è troppo piccolo per colmare il proprio cuore. Insomma, Leopardi dice che l’uomo può essere appagato solo con l’Infinito (peraltro il titolo di un’altra sua celebre poesia), ma dal momento che -crede- questo Infinito non c’è, ecco il fallimento.

Leopardi non trova Dio, ma con onestà intellettuale fa capire che tale assenza rende inappagato e infelice l’uomo, patendo un’impossibile conciliazione con la vita.

Se Leopardi avesse incontrato Dio nella sua poetica, avrebbe detto con sant’Agostino: “Il mio cuore è inquieto fin quando non riposerà in Te, o mio Signore” (Confessioni 1,1.5).


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