SOSTA – Ti sei mai chiesto perché oggi c’è l’ossessione delle giornate dedicate a qualcosa o a qualcuno?

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


A proposito di ricorrenze giornaliere, tra non molto su 365 giorni ne saranno occupati 364, l’ultimo ovviamente verrà dedicato alla Giornata contro le giornate, cioè a favore di coloro che non sopportano che i giorni vengano dedicati a qualcosa o a qualcuno.

A parte le battute, c’è un dato sul quale come “Cattolici della Tradizione” (come noi del C3S amiamo definirci, clicca qui) dobbiamo riflettere.

Giambattista Vico (ottimo filosofo se studiato bene, cosa che spesso non si fa) parlava di eterogenesi dei fini. Quando si vuole raggiungere un obiettivo sbagliato, proprio perché si sbaglia, non solo non si raggiunge l’obiettivo desiderato, ma si finisce paradossalmente con il raggiungere l’obiettivo opposto. Ebbene, se ci si riflette, da quando si è espunto, cioè eliminato, il sacro dal tempo, si è preteso conferire un significato “inflattivo” al tempo stesso. Più semplicemente: la modernità, prima, e la postmodernità, dopo, hanno combattuto l’irruzione del sacro nel tempo (le feste religiose) per poi finire con l’intento ossessivo e ansiogeno di dare un significato laico al tempo, fino -come avviene ora- a dedicare un giorno per tutto. C’è solo l’imbarazzo della scelta: giorno dell’allegria, della pace, della gentilezza, degli animali, del gatto, del cane

Cosa significa tutto questo? Meglio: cosa descrive tutto questo? Significa un’ evidente perdita della speranza.

La speranza non è solo una virtù teologale, ma anche un sentimento umano. Sperare di migliorare anche con le proprie forze, sperare che ci sia qualcuno che possa aiutarci, sperare che la scienza possa risolvere alcune malattie, sono sentimenti del tutto naturali. Ma la speranza umana se non si orienta e non si completa nella Speranza divina (virtù teologale) si mostra monca e tende ad “impazzire”.

L’ “impazzimento” a cui alludiamo è quello di ricordarci ossessivamente di essere capaci di risolvere personalmente o socialmente tutto. Da qui l’ “ansia” di dedicare ogni giorno per qualcosa, illudendosi ingenuamente che in quel giorno si possa prefigurare utopisticamente un mondo senza quel problema o a favore di qualcuno o di qualcosa.

Una volta era l’anno liturgico a ricordare direttamente e indirettamente agli uomini determinati problemi. Le stesse prediche domenicali svolgevano questo ruolo. Se nella Messa si leggeva il brano del Buon Samaritano, il sacerdote nell’omelia catechizzava i fedeli ad essere caritatevoli dinanzi alle sofferenze altrui. Poi c’erano anche preghiere per risolvere problemi climatici o catastrofici, per esempio: la siccità, i terremoti, le alluvioni… Insomma, tutto era relegato e fondato sulla presenza di chi potesse davvero aiutare (l’Onnipotente), nella chiara convinzione che ogni problema ed ogni questione, per quanto diversa, trovasse nell’invocazione la sua soluzione e la sua paziente accettazione.

Oggi, mancando questo, la speranza si è banalizzata nella fantasia di “temporalizzare” categorie umane, specie animali o problemi sociali, con la pretesa di invitare a ricordare, eventualmente a risolvere, facendo unicamente appello alle proprie forze.

Si tratta, insomma, di una sorta di “solitudine temporale”. Il tempo, cioè, è rimasto solo. Impietosamente solo. Il tempo dovrebbe risolvere se stesso con se stesso. E’ nel tempo, solo in questo, che andrebbe trovata la soluzione.

L’esploratore inglese William Penn (1644-1718) ebbe a dire: “Il tempo è ciò che più desideriamo, ma che, ahimè, peggio usiamo.” 

Oggi è proprio così. Mai come in quest’epoca ci si “attacca” al tempo, non si vuole perderlo, guai a pensare che un giorno esso sarà destinato a finire con l’incombenza della morte; ma poi, con la pretesa che il tempo possa trovare in se stesso il suo significato, diventa il più assurdo ed inutile trastullo.

E così -come dice giustamente William Penn- il tempo diviene la cosa che usiamo più malamente.


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