Solo l’uomo che decide di non essere uomo fa a meno della nostalgia del divino

“Quando un essere finito sente che “diventa Dio”, è perché egli è, come Vespasiano, alla vigilia della sua dissoluzione…” Queste parole sono del filosofo cattolico Gustave Thibon e sono inserite in una sua opera che si chiama La scala di Giacobbe.

Il male ha una caratteristica ben precisa e anche un po’ paradossale: genera il contrario di ciò che vuole generare. E’ il paradosso del vero. Un altro famoso filosofo cattolico del ‘900, Augusto del Noce, sulla scia di Giambattista Vico, parlava di “eterogenesi dei fini”. Se si parte da un errore, non solo non si raggiunge ciò che si vuole raggiungere, ma paradossalmente si raggiunge il contrario. Il racconto del peccato originale ci dice molto a riguardo. Adamo ed Eva peccarono con l’intenzione di poter essere più grandi, addirittura di poter divenire come Dio; non solo non raggiunsero tale obiettivo, ma “si scoprirono nudi”, cioè più limitati di quanto fossero originariamente. Tant’è che non ebbero il coraggio di andare verso Dio allorquando il Signore, come ogni mattina, decise di scendere nell’Eden alla brezza del giorno.

Torniamo alle parole di Thibon: l’uomo raggiunge la sua dissoluzione proprio quando coltiva la più sproporzionata delle ambizioni, il voler diventare Dio.  L’uomo però è ampiamente consapevole di tutto questo. Anzi, questa è una delle tematiche più presenti nella sua dimensione esistenziale. Prendiamo un famoso personaggio come Odisseo (meglio conosciuto come Ulisse). Quando questi riceve la proposta di divenire un dio, se ne sente attratto, ma poi non riesce a tenere a bada la “nostalgia” del ritorno e decide di non tradire la sua natura creaturale. Preferisce rifiutare tale proposta inimmaginabile, perché sa che la sua natura originaria è l’unica condizione per conservare la propria umanità.

Le parole di Thibon non citano la parola “nostalgia”, ma è questo il tema a cui esse riconducono.

E’ vero che Thibon si limita a parlare della tentazione (peraltro perenne) dell’uomo di farsi come Dio, ma è pur vero che tale tentazione si sviluppa allorquando l’uomo abbandona la sua essenza e soprattutto non riesce ad alimentare l’affezione alla sua natura.

Platone spiega in questo modo il senso della nostalgia e quindi la tensione che l’uomo ha verso il soprasensibile. Come mai –si chiede- ognuno di noi possiede il concetto di assoluto se poi nella realtà in cui ci si trova nulla è assoluto? Come mai ognuno di noi possiede il concetto di perfezione massima se poi nella realtà in cui ci si trova nulla è massimamente perfetto? Come mai ognuno di noi possiede il concetto di bellezza assoluta se poi nella realtà in cui ci si trova nulla è assolutamente bello? Ciò significa –conclude Platone- che l’uomo ha già fatto esperienza di tutte queste cose, ne ha fatto esperienza in un mondo ideale ancor prima di vivere in un corpo. Ovviamente, quella di Platone, è una spiegazione che non può cristianamente essere accettata; infatti sarà poi corretta dal genio di sant’Agostino con la cosiddetta “teoria dell’illuminazione”; ma ciò che c’interessa in questo caso è l’attenzione che Platone riversa nei confronti della nostalgia, affermando che tutto sommato è proprio questa che muove la vita dell’uomo e che lo riconduce al suo essere, al suo senso, al suo destino.

La nostalgia è riconduzione dell’uomo all’assoluto. Nasce e si sviluppa dalla consapevolezza che egli non può fare a meno dell’infinito e dell’assoluto, perché non li possiede in sé, perché è inequivocabilmente limitato, perché è incapace di organizzare qualsiasi tipo di autosufficienza, perché è incapace strutturalmente di essere risposta a se stesso, perché non può essere Dio.

Ed eccoci nuovamente a Thibon e alle sue parole: “Quando un essere finito sente che “diventa Dio”, è perché egli è, come Vespasiano, alla vigilia della sua dissoluzione…”. Il desiderio di divenire come Dio è il contrario della nostalgia, perché è il contrario dell’ordine naturale; e la nostalgia è la sublimazione dell’ordine, è il ricondurre tutto all’origine, al senso, alla dipendenza dell’uomo-creatura al Dio-creatore.

Ne I fratelli Karamazov Dostoevskj fa dire ad un suo personaggio: “Tutte le cose e tutto nel mondo è incompiuto, per l’uomo, e nel frattempo il significato di tutte le cose del mondo è racchiuso nell’uomo stesso.” Queste parole possono sembrare ambigue, nel senso che sembrerebbero dare ragione ad un certo tipo di antropocentrismo che pretende affermare che tutto avrebbe inizio con l’uomo e tutto finirebbe con l’uomo stesso. E invece hanno un altro significato. L’uomo (solo lui sulla faccia della terra) ha la capacità di capire che tutto è contrassegnato dal limite, che tutto è –appunto- “incompiuto”. Ma non solo questo. Solo l’uomo ha la possibilità di capire che tutto acquista senso dall’attesa dell’uomo, dal suo desiderio di ricercare il Significato: “…il significato di tutte le cose del mondo è racchiuso nell’uomo stesso.”

Dunque, tutto acquista senso dalla nostalgia -umana- del divino.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

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1 Comment on "Solo l’uomo che decide di non essere uomo fa a meno della nostalgia del divino"

  1. Tarasco Genesio | 8 Giugno 2022 at 7:49 | Rispondi

    Molto vero, molto condivisibile.
    Quanto farebbe bene ai giovani e meno giovani il ravvivare quella nostalgia che a tutto da’ senso. Grazie.

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