Rubrica a cura di Corrado Gnerre
Il cattolico Tolkien, famoso autore della trilogia de Il Signore degli anelli, scrive nel suo Le fiabe: “Il compositore della fiaba si dimostra un sub-creatore riuscito. Egli costruisce un Mondo Secondario in cui la nostra mente può introdursi. In esso, ciò che egli riferisce è vero: in quanto in accordo con le leggi del mondo.” Tolkien ha ragione. La fantasia non è surrealismo. Questo nasce dalla pretesa folle di riscrivere il reale, rifiutandone le sue costitutive leggi. La fantasia, invece, è passione per il vero e per il reale. E’ una passione di tale portata che arriva ad offrire di questo vero e di questa realtà una chiave di lettura che possa meglio evidenziarne il mistero. Quale mistero? Il miracolo che rende la realtà un codice con cui cogliere la presenza continua di Dio e la bellezza della sua Verità. Ecco dunque che si può fare apologetica anche attraverso le fiabe.
C’era una volta un Re che aveva una figlia immensamente bella, ma allo stesso tempo così superba ed arrogante che nessun pretendente le andava bene. Prima li sbefeggiava, infine li scartava miseramente. Una volta il Re diede una grande festa alla quale furono invitati pretedendenti da ogni dove. Li fece mettere tutti in fila, e in ordine di rango: prima i sovrani, poi i granduchi, dopo i principi, poi i conti, poi i baroni, infine gli aristocratici; uno per uno, furono presentati alla principessa, ma ella trovò in ognuno di loro qualcosa da obiettare. Qualcuno era troppo grasso: “Assomiglia tanto a una botticella” disse; un altro era troppo alto: “alto e smilzo, sembra un manico di scopa.” Naturalmente, il terzo era troppo basso: “basso come un tappo e pure tracagnotto.” Il quarto era per lei troppo pallido: “smunto come la morte”. Il quinto era troppo rosso: “gallo da primo premio.” Mentre il sesto era addirittura troppo poco dritto: “Legna verde fa fumo nel camino.” E così via; furono ridicolizzati e bocciati tutti senza appello, in modo particolare un giovane e buon re che si trovava in prima fila, il cui mento era leggermente sporgente. “Ma guardatelo!” esclamò, ridendo, “ha un mento che sembra il becco di un tordo!” E da quel momento lo battezzò «Re Mentone». A quel punto, il vecchio Re, stufo di vedere la figlia che non faceva altro che schernire la gente e offendere tutti i pretendenti alla sua mano, andò su tutte le furie e le giurò che il primo straccione che avesse varcato la soglia del palazzo, l’avrebbe avuta in moglie. Ed ecco che qualche giorno dopo giunse sotto le finestre del palazzo un suonatore ambulante venuto da chissà dove per guadagnare qualche soldo. Il Re se ne accorse e lo fece salire, e così, il vecchio cantore, vestito di stracci lerci e consunti, fu ammesso a cantare per il Re e la Principessa; a fine esibizione domandò una piccola offerta, e il Re, disse: “La tua canzone mi è piaciuta tanto, che voglio concederti la mano di mia figlia”. A quelle parole la principessa inorridì, ma il Re disse: “Ho giurato che ti avrei fatta sposare al primo mendicante che si fosse presentato, e intendo mantenere la parola”. La fanciulla protestò, ma inutilmente: il Re convocò immediatamente un sacerdote ed ella fu unita in matrimonio al menestrello in seduta stante. Ma non basta: appena le nozze furono celebrate, il Re disse: “Non sta bene che la moglie di un mendicante soggiorni nel mio palazzo. Ti invito, quindi, ad andartene via subito con tuo marito”. Il mendicante prese sua moglie per mano, ed ella dovette andar via con lui, a piedi; arrivarono a una grande foresta, ed ella chiese al marito: “A chi appartiene questo bel bosco?”. “è di Re Mentone. Se l’avessi sposato, oggi tutto questo sarebbe tuo.” “Oh, me misera! Se solo avessi accettato di sposare Re Mentone..” Dopo un po’, attraversarono una prateria, ed ella chiese ancora: “Di chi è questa bella e verde prateria?” “Appartiene a Re Mentone. Se tu l’avessi accettato come marito, oggi sarebbe tua”. “Oh, me misera! Se solo avessi accettato di sposare Re Mentone..” “Senti, non mi va che tu stia sempre a lagnarti che hai sposato me e non un altro” disse il menestrello, “non ti vado bene, io?” Finalmente giunsero a una misera capanna, e la moglie chiese al marito: “Oh, buon Dio… com’è minuscola questa casa.. a chi appartiene questo misero tugurio?” Il vecchio rispose: “A me. Questa è casa mia, e da oggi è anche la tua. Ci vivremo insieme.” Tanto era basso l’ingresso, che la ragazza dovette chinarsi per entrare. “Dov’è la servitù?” chiese al marito. “Quale servitù?” rispose il mendicante, “d’ora in poi dovrai arrangiarti da sola. Su, forza, adesso: accendi subito il fuoco e metti a bollire dell’acqua, e preparami qualcosa da mangiare, che sono molto stanco.” Ma la principessa non ne sapeva nulla di come si accende un fuoco e di come si cucina, e quindi il mendicante dovette aiutarla a fare tutto, poiché lei non sapeva fare niente. Quando ebbero finito di consumare il loro misero pasto se ne andarono a letto, e la mattina dopo la fece alzare di buon’ora per fare i mestieri di casa. Per alcuni giorni, i due poterono tiare avanti così, come potevano, ma ben presto esaurirono le poche provviste. Il vecchio mendicante disse allora alla moglie: “Moglie, se vogliamo continuare a mangiare e a bere, dobbiamo guadagnare dei soldi. Da oggi intreccerai dei cesti.” E andò fuori a tagliare dei salici, e li portò in casa; cominciò allora ad intrecciare, mai giunchi duri le rovinavano le mani delicate. “Vedo che non fa per te” disse il menestrello. “Forse è meglio che provi a filare: magari ti riesce meglio.” La fanciulla sedette all’arcolaio e cominciò a filare, ma il filo duro e grezzo le tagliava le dita delicate fino a fargliele sanguinare. “Povero me! Sei proprio una buona a nulla! Non ho fatto un grande affare con te. Proverò ad intraprendere un commercio di vasi di terracotta. Tu dovrai solo portarli al mercato e venderli.” Ed ella pensò, ‘ Oh, me misera! Se dovessero vedermi i servi di mio padre, si prenderebbero gioco di me.. una principessa che vende terraglia all’angolo di una strada!” Protestò, invano, e alla fine dovette fare come il marito ordinava, se non voleva morir di fame. All’inizio andò tutto bene; la gente comprava volentieri da lei perché era una bella donna, e pagava senza lamentarsi: c’era persino chi le regalava il denaro senza portarsi via la merce, e con il ricavato di quelle vendite tirarono a campare, fino a quando i soldi finirono, e il marito dovette acquistare altra terracotta; la principessa si mise all’angolo del mercato ed espose la merce, ma improvvisamente un ussaro ubriaco galoppò proprio in mezzo alle terraglie, frantumandole in mille pezzi. La poveretta si mise a piangere, e si disperò tanto che non sapeva più che cosa fare. “Oh, buon Dio! Che ne sarà di me? Che cosa dirà, adesso, mio marito?” Corse a casa a accontargli la disgrazia. “Chi è così sciocco da piazzarsi sull’angolo della strada con tutta la merce?” disse il marito. “E’ palese che non sei capace di lavorare, comunque, adesso smettila di piangere e ascoltami: oggi sono capitato per caso al palazzo del re, e ho chiesto se per caso avessero bisogno di una lavapiatti; mi hanno promesso di prenderti: in cambio avrai vitto gratuito.” Così, la figlia del re diventò una sguattera; dovette dare una mano a cucinare e da quel momento tutti i lavori più pesanti toccarono a lei. S’allacciò una brocchetta alle tasche, e lì nascondeva gli avanzi di cibo da portare a casa, e vissero di quello.
Accadde poi un giorno che furono annunciate le nozze del figlio minore del re, e la poveretta andò a sbirciare attraverso la porta della salone. Quando furono accese tutte le luci e vide la sala addobbata in pompa magna per l’avvenimento, nel vedere sfilare una ad una donne bellissime, vestite da gran dame, pensò allora alla sua scarna condizione con il cuore gonfio di tristezza, e in quel mentre maledì l’orgoglio e la boria che l’avevano condannata a tanta miseria. Un odorino prelibato usciva dalle pietanze luculliane che passavano in rassegna, stuzzicando le sue narici; di tanto in tanto qualche cameriere le lanciava un boccone, che prontamente acchiappava per infilarlo nella brocchetta per portarselo a casa. Improvvisamente il promesso sposo varcò la soglia, indossando abiti eleganti di seta e velluto, portando al collo tante catenine d’oro; quando vide quella bella donna che stava ferma davanti alla porta, la prese per mano e la invitò a ballare, ma ella rifiutò, spaventata, poiché vide che era Re Mentone, il pretendente che aveva respinto e deriso. Cercò di divincolarsi, ma lui la spinse nel salone, ed ecco che la cintura che le teneva allacciata la brocca alla vita, si slacciò, finendo per rovesciarsi in terra con tutto il suo contenuto: la minestra colava e gli avanzi si sparsero dappertutto. A quella scena, gli ospiti risero e si presero gioco di lei, e lei si sentì sprofondare dalla vergogna. Con un balzo raggiunse la porta, decisa a fuggire, ma un uomo l’afferrò per un braccio e la ricondusse nella sala, e quand’ella volse lo sguardo vide che era ancora Re Mentone, che le disse affettuosamente: “Non avere paura. Sono io il povero menestrello che ha vissuto con te nella miserabile capanna nel bosco. Mi sono travestito per amor tuo, e fui ancora io l’ussaro che quel giorno ti distrusse tutti i vasi di terracotta. Ho fatto tutto questo per domare il tuo orgoglio e per punirti dell’arroganza con la quale mi avevi trattato.” La principessa pianse amaramente e disse: “Ho agito malissimo, non merito di diventare vostra moglie.” Ma lui disse: “Rasserenati, quel tempo è finito, e adesso celebreranno il nostro matrimonio.” Entrarono due damigelle e vestirono la principessa sontuosamente; poi, venne anche suo padre, e tutta la corte augurò ogni bene alla coppia, ed ella divenne la sposa di Re Mentone, e da quel momento la loro felicità fu completa. (fonte)
La Provvidenza ci fa capire che il mondo è uno solo!
Nella vita di san Luigi IX, Re di Francia, si legge che egli spesso si recasse all’ospizio degli ammalati per curare personalmente i più disgraziati. Arrivava perfino ad imboccare coloro ch’erano presi da maggior patimento e non erano, come oggi si dice, “autosufficienti”. Eppure stiamo parlando di un Re, e non di un Re di un regno qualunque, ma della Francia, che allora era la nazione più importante. Anche gli storici di estrazione più laica hanno dovuto ammettere che la Francia non ha mai funzionato così bene come sotto il regno di Luigi IX. Un re che trascorreva tanto tempo a pregare i cappella e che assisteva gli ammalati.
Il Cristianesimo riconosce il valore dell’aristocrazia, perché questa deve essere segno di sacrificio e di servizio, e quindi deve essere anche modello visibile del fatto che la vita debba essere “spesa” per l’ideale. D’altronde molti aristocratici erano di origini umilissimi, avendo poi ricevuto titoli per essersi distinti per atti a favore della comunità Si pensi a Giovanna d’Arco. Ella era una semplice guardiana di oche, ma, per quello che fece, ottenne un titolo nobiliare.
Il vero nobile, pur dovendosi distinguere formalmente (perché la forma è anche sostanza) rispetto agli altri, pur dovendo essere riverito e riconosciuto, non solo deve conoscere la vita, ma deve anche “chinarsi” sulla vita stessa. Chinarsi sulle ferite dei più sfortunati. Chinarsi sui problemi dei più disagiati. Chinarsi per sanare le ingiustizie più manifeste. Come un vero padre!
La superba principessa della fiaba non aveva capito nulla della nobiltà. Pensava che tutto dovesse essere autoreferenziale. Che esistesse solo lei. Che a servire dovessero essere gli altri e non lei.
Ma la Provvidenza le fa una grazia (perché di grazia si tratta): la costringe a vivere ciò che ella non aveva mai voluto prendere in considerazione, da cui si era volutamente rendere distratta: la povertà e la sofferenza. Ella pensava che potessero esistere due mondi che non si sarebbero mai dovuti incontrare: di godimento spensierato e di sofferenza affannosa.
La Provvidenza le fa una grazia per farle capire che il mondo è uno solo: cioè che a tutti spetta il sacrificio. Spetta a chi soffre, ma anche a chi deve rimboccarsi le maniche per sanare la sofferenza.
Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri
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