COMMENTO AL CATECHISMO DI S.PIO X – nn.194-195

A cura di Pierfrancesco Nardini


n.194

Domanda: Perché è peccato il suicidio?

Risposta: Il suicidio è peccato, come l’omicidio, perché Dio solo è padrone della nostra vita, come di quella del prossimo: inoltre è peccato di disperazione che, di più, toglie con la vita la possibilità di pentirsi e di salvarsi.

n. 195

Domanda: La Chiesa ha stabilito pene contro il suicida?

Risposta: La Chiesa ha stabilito la privazione della sepoltura ecclesiastica contro il suicida responsabile dell’atto compiuto.


Dio, come detto nel precedente commento, è l’unico padrone della vita. Agli uomini ha concesso solo il diritto alla vita, non sulla vita.
Questo comporta che, così come è gravissimo peccato l’omicidio, altrettanto lo è il suicidio. È sempre una vita quella che si interrompe. Che sia la nostra o quella di un altro, non conta. “Il precetto: Non uccidere! va riferito all‘uomo. Cioè non uccidere né gli altri né te stesso. Infatti chi uccide se stesso non fa altro che uccidere un uomo” (S. Agostino, De civ. Dei 1, 20)

Nel caso del suicidio valgono quindi tutti i principi che stanno alla base della condanna dell’omicidio.

San Tommaso d’Aquino aggiunge altri due motivi per la condanna del suicidio, oltre al fatto che la vita sia proprietà esclusiva di Dio: è contrario all’inclinazione naturale e alla carità con cui ognuno deve amare se stesso ed è anche un torto alla società in cui l’uomo vive come parte di un tutto (Summa Theol., II-II, q. 64, a 5).

Il suicidio non è mai ammesso, nemmeno per evitare di cadere nel peccato o un male, nemmeno per un peccato commesso, “perché in tal modo uno danneggia se stesso in maniera gravissima, privandosi del tempo necessario per fare penitenza” (Summa Theol., cit.).

Un elemento che rende infatti ancor più penoso il suicidio è il peccato di disperazione che ne sta alla base. La disperazione è un peccato che si oppone alla speranza, “è la diffidenza di ottenere il perdono pensando che Dio non voglia o non possa perdonare i nostri peccati” (Casali).
Cadere in questo peccato significa non credere più nella bontà e nella misericordia di Dio, significa insomma perdere la fede, significa togliersi la possibilità di pentirsi e di salvarsi.

L’esempio classico di Giuda Iscariota è usato da sempre proprio perché é chiarissimo: “ciò che rese irreparabile la rovina di Giuda non fu il tradimento, ma la disperazione che lo spinse a impiccarsi e fu causa della sua dannazione” (Dragone). Se non si fosse tolto la vita, Giuda, fino all’ultimo momento della sua vita naturale, avrebbe avuto la possibilità di pentirsi e tornare in stato di grazia. Tolta la vita, invece, si tolse anche la possibilità di salvezza.

La Chiesa ha sempre proibito la sepoltura ecclesiastica e la celebrazione pubblica di Messe e funzioni di suffragio per i suicidi, perché resisi indegni di ottenerli. Questo non per una cattiveria gratuita, come si pensa oggi, pensiero che ha contaminato anche la gerarchia postconciliare, portando a un invertire la rotta su queste questioni.

La motivazione alla base di questa scelta, che, si ripete, è da sempre stata affermata dalla Chiesa, sta nel non dare cattivo esempio: concedere sepoltura ecclesiastica e pubbliche Messe ad un suicida avrebbe potuto far pensare ai fedeli che quel gesto fosse lecito. Molte volte, troppe, si dimentica che l’aspetto visivo, i gesti e gli esempi, sono altrettanto importanti quanto le parole per l’insegnamento e il messaggio da inviare. Questo vale ancor di più per la Chiesa, che non potrebbe mai far passare con una sua azione il concetto di ammissibilità di un peccato, come purtroppo invece accade troppo spesso ai nostri giorni.

Quanto sopra è sostenuto dal fatto che non si è mai però proibito di celebrare Messe private e di pregare privatamente per il suicida. Quest’ultimo, infatti, potrebbe sempre “essersi pentito all’ultimo momento, essersi salvato e aver bisogno di suffragi” (Dragone).


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