RACCONTO PER IL “CAPODANNO” – Il torroncino

di Corrado Gnerre


Quando s’intraprende la strada della negazione di sé e il male diviene l’orientamento fondamentale della propria vita, la coscienza si atrofizza, l’intelligenza si acceca, ma nel fondo del cuore qualcosa può ancora rimanere. Un po’ come la piccolissima brace che è sotto il legno ormai spento del camino. Non c’è più calore che vien fuori. Eppure, sotto-sotto, qualcosa ancora resta. Resta il ricordo dell’umanamente bello (come il gustare un semplice morbido torroncino quando si era fanciulli, premio di chissà quale buona azione). Il ricordo dell’umanamente bello s’impone anche alla soddisfazione mondana più grande. S’impone perché è vero, perché è conforme all’umano. Quando poi il dolore avvolge tutto e realisticamente riconduce alla propria, inevitabile, piccolezza, allora il ricordo dell’umanamente bello vien fuori prepotente … e inesorabilmente giudica.


Don Tommasino non si poteva muovere né parlare. Il suo corpo era quasi completamente paralizzato e un tubo fastidiosissimo gli occupava la bocca. Vedeva intorno a sé delle persone, ma non le conosceva. D’altronde don Tommasino non aveva parenti stretti, non aveva moglie né figli. Piuttosto vedeva due poliziotti che piantonavano l’entrata della camera.

Era il giorno di Capodanno e don Tommasino ricordava quello che gli era accaduto. Il Natale lo aveva passato come sempre, cioè con le persone giuste a parlare d’affari, giocare e divertirsi. Gli affari erano quelli di sempre, gestire quanti più mercati della droga. Il gioco era quello di azzardo e il divertimento era il contrario della Legge di Dio. Poi il buio: si era sentito male, qualcuno lo aveva portato all’ospedale con lo “sgarro” di dare al Pronto Soccorso le sue generalità; e la Polizia lo aveva finalmente catturato. I suoi amici e le sue donne, spariti, dissolti, volati via.

Da giorni don Tommasino non poteva pronunziar parola, non poteva muoversi né mangiare. Purtroppo, per lui, poteva pensare e ricordare, ma nessun pentimento lo sfiorava, anzi solo il rammarico di non poter continuare a gestire quello che in tanto tempo era riuscito ad accumulare. Poi tanto odio, desiderio di vendetta verso chi aveva approfittato della situazione per poterlo tradire. Non aveva paura di morire (d’altronde lui che aveva deciso di fare quella sporca vita non poteva aver paura di queste cose), aveva invece paura di rimanere così su quel letto o, guarito, in qualche cella carceraria.

La fame, poi, lo torturava. Tutto il giorno di Capodanno passò in quel modo, osservando qualche estraneo che gli stava intorno, che sparlava di lui, ma con molta “riverenza” perché … non si sa mai, qualora fosse guarito e fosse stato rilasciato. Pensava a tutto ciò che aveva a disposizione prima che avvenisse quella brutta cosa. Si concedeva il lusso di poter mangiare di tutto, di far venire nella sua villa i pranzi dei migliori ristoranti della Sicilia e anche sbatterli in faccia ai camerieri qualora non fossero stati di suo gradimento, tanto per dimostrare la sua potenza a chi gli faceva compagnia a tavola.

Verso sera, nella sua camera blindata a dovere, entrò il primario con due infermieri. Il medico fece cenno che poteva essergli tolto il tubo. Don Tommasino provò un sollievo come mai aveva provato. Poi il medico estrasse dal tascone del suo camice un torroncino, lo scartò e guardò il paziente negli occhi. Apra la bocca – gli disse e pose il torroncino nella bocca dell’uomo. Auguri, oggi è Capodanno –continuò il dottore – Sto facendo un po’ come Babbo Natale, distribuisco un torroncino a tutti i miei pazienti … e se fanno i bravi, passerò anche domani sera a portarne un altro.

Don Tommasino, con la fame che aveva, si gustò come non mai quel dolcetto morbido-morbido, così piccolo ma tanto buono. Quanti torroncini nella sua vita aveva buttato via!

Quella sera don Tommasino non riuscì a chiudere occhio. Un pensiero lo angustiava: chi gli avrebbe mai detto che un giorno sarebbe arrivato a desiderare così tanto un dono insignificante come un misero torroncino. Domani sarebbe arrivato nuovamente il dottore a portarglielo? Gli avrebbero tolto ancora per un po’ quel fastidiosissimo tubo? E don Tommasino visse nell’attesa di quel possibile, nuovo, dono. Di quella piccola “novità” che iniziava a colorare di una speranza diversa la sua vita, adesso così malridotta su un letto di ospedale. Quando in passato era in attesa di notizie importanti (il carico dal Venezuela era arrivato? I soldi erano stati “puliti” bene? Il traditore era stato fatto fuori?) il suo pensiero non era così in ansia come adesso.

L’indomani il medico fece ritardo. Don Tommasino s’intristì e ogni volta che la porta si apriva, sperava che fosse il primario con il torroncino, ma rimaneva continuamente deluso. Quando poi il primario, con due infermieri, arrivò davvero, don Tommasino si commosse e ricordò l’ultima volta che i suoi occhi si bagnarono di lacrime. Lui, piccolino, e il fratello più grande che gli aveva strappato un torroncino dalla mano.


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