Ti diciamo perché il Cristianesimo è l’unica religione che soddisfa pienamente il desiderio umano

di Corrado Gnerre

“Bisogna che il fine ultimo soddisfi talmente l’intero desiderio dell’uomo, cioè ogni sua esigenza e aspirazione, da non lasciare niente da desiderare e da ricercare all’infuori di esso.”

L’autore di queste parole afferma che il fine ultimo, cioè ciò a cui l’uomo deve tendere, non può essere una semplice e comune méta, bensì una méta particolare, una méta che possa soddisfare l’intero desiderio dell’uomo. L’autore entra nello specifico dicendo: “… deve soddisfare ogni sua esigenza e aspirazione”.

Non ci può essere nulla dell’uomo, come esigenza e come aspirazione, che possa porsi al di fuori di questo desiderio; e tale desiderio deve essere a sua volta pienamente soddisfatto dalla méta finale. Continua l’autore: “… da non lasciare niente da desiderare e da ricercare all’infuori di esso”. Il che vuol dire che una volta che si è raggiunta questa méta, non si può desiderare nulla al di fuori di questa.

L’autore di queste parole non è un moderno ma nemmeno un antico (nel senso di mondo classico). E’ un medioevale. Addirittura è il pensatore più rappresentativo del medioevo. E’ san Tommaso d’Aquino (1225-1274). Queste cose le scrive nella sua Summa Theologiae, precisamente nella prima secundae, questione 1, articolo 5.

Con tali parole san Tommaso indica la méta nel Paradiso, cioè nella visione beatifica di Dio. Ora, anche coloro che non dovessero essere d’accordo con il credo di san Tommaso, ovvero coloro che non credessero nell’esistenza di una vita ultraterrena beata, dovrebbero convergere sul fatto che tali parole non sono affatto una negazione di quelle che sono le istanze e i desideri più profondi dell’uomo.

Qui san Tommaso d’Aquino sta parlando della felicità. E lui osa dire che non solo il desiderio di felicità non è negativo (in altri passaggi insiste sull’evidenza che l’uomo è fatto per la felicità e che la ricerca per natura), ma che l’uomo senza la felicità non può vivere. Ebbene, san Tommaso non solo dice questo, ma dice anche che è giusto che l’uomo realizzi se stesso.

Una riflessione va certamente fatta sul piano storico. Salta, infatti, quel luogo comune che vuole che l’uomo medioevale tendesse ad autoridursi, a sopprimere le sue istanze più profonde, cioè un uomo intimorito e impaurito da un divino oppressivo; un uomo che tendesse a mortificarsi a ridursi; un uomo che tendesse a farsi più “piccolo” della sua reale natura; un uomo che tendesse a vedere se non tutto “nero” almeno “grigio”. Non a caso il medioevo viene definito come epoca oscura. Il film Il nome della rosa, traduzione cinematografica del celebre (per nulla rispettoso della storia) romanzo di Umberto Eco, è tutto girato nella penombra, nell’oscurità, e le scene all’aperto sono con un cielo rigorosamente plumbeo.

Che differenza tra ciò che dicono dell’uomo alcuni filosofi contemporanei rispetto a ciò che abbiamo appena letto di san Tommaso! Jean-Paul Sartre (1905-1980) arriva ad affermare che la libertà diventa per l’uomo una condanna, quindi qualcosa d’insopportabile. Ma non solo: diventa insopportabile l’essere nonché la stessa vita.

Invece, nelle parole appena lette di san Tommaso l’uomo può diventare un gigante e di fatto diventa tale: “Bisogna che il fine ultimo soddisfi talmente l’intero desiderio dell’uomo, cioè ogni sua esigenza e aspirazione, da non lasciare niente da desiderare e da ricercare all’infuori di esso.”

E’come se san Tommaso dicesse:  Non c’è possibilità per l’uomo di essere omuncolo. O si è uomini o si è animali. O si è uomini o si è bestie. La bestia –è indubbio- non desidera la felicità. Il cagnolino, una volta che ha la scodella piena, è soddisfatto. L’animale non ha alcuna preoccupazione, perché non ha il pensiero. Ovviamente non ha nemmeno la preoccupazione di cosa dovrà fare, perché non ha consapevolezza del trascorrere del tempo né ha un senso della progettualità.

San Tommaso invece afferma che l’uomo ha una duplice possibilità: o asseconda il suo desiderio o lo censura. Se asseconda il suo vero desiderio, s’indirizza verso la pienezza di sé. Ma se non asseconda questo desiderio è come se si auto-negasse, perché una vita che sia fuori dell’intenzione di realizzare il desiderio costitutivo dell’esistere, non è più una vita, non è più “la vita”, nel senso autentico della parola.

Dunque, non è vero che chi pensa a Dio e chi riconduce tutto a Dio lo fa per annullarsi, anzi. San Tommaso parte da un amore che l’uomo deve avere verso se stesso. E se l’uomo sceglie Dio, non sceglie Dio perché non si ama, ma proprio perché vuole davvero amarsi. Sceglie Dio perché vuole donare a se stesso ciò che è il meglio per sé.

Lo stesso discorso lo aveva già fatto sant’Agostino (354-430). Si sa come egli visse prima della conversione: vita gaudente e finanche un figlio naturale. Nelle Confessioni parla del disagio di essere passato da una vita (in cui tutto sommato poteva fare ciò che voleva) ad un’altra in cui era costretto a vivere in maniera morigerata e a rispettare la castità completa. Lui avverte questo disagio, ma nello stesso è contento per il cambiamento di vita. C’è una bella espressione del capitolo decimo delle Confessioni in cui, pur avendo vissuto una vita di piaceri, egli si rammarica di non aver prima incontrato la “Bellezza”: “Tardi ti amai, o Bellezza divina, per me così nuova e così antica. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me e io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la tua sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.”

Sant’Agostino aveva vissuto i piaceri, ma non aveva incontrato la Bellezza, la Gioia. Interessante come egli appelli Dio con il termine “bellezza”. Addirittura fa trapelare una dimensione carnale: “Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.” Insomma, sant’Agostino parla di Dio non come un’astrazione, non come un’idea, bensì come realtà concreta, come qualcosa che la sua vita desiderava intimamente, ma che egli fino ad allora non era riuscito ad incontrare. Eppure il suo passaggio era stato tutt’altro che indolore. Le Confessioni si chiamano così proprio perché sono anche un ricordo di ciò che egli aveva compiuto in passato.  Sant’Agostino non ha vergogna a raccontare. Dunque, il passaggio non era stato affatto indolore, anzi traumatico, ma nello stesso tempo capisce che malgrado il passaggio in sé, ha guadagnato molto-molto di più, perché ha guadagnato la realizzazione di quel desiderio che portava profondamente nel suo cuore.

La frase di san Tommaso da cui siamo partiti e l’esperienza di vita di sant’Agostino ci confermano ciò che è sperimentabile nell’esistenza di ogni cristiano che si sforzi di vivere autenticamente la sequela del Signore, ovvero che solo nella Verità di Cristo viene appagato ogni desiderio, che solo in Lui l’uomo realizza pienamente il suo esistere.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri

 


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