APOLOGETICA GUSTANDO – Una fetta di pandoro

Rubrica a cura di Corrado Gnerre


L’uomo è l’unico essere sulla faccia della terra che cucina. Gli animali no, non lo fanno. Anche in questo l’uomo si distingue. Ciò è il segno che all’uomo non basta solo assaporare, bensì ricerca l’affinamento, cioè il miglioramento del sapore. L’uomo coglie il piacere del gusto e desidera ancor più intensificarlo. E’ l’esito del suo essere collocato in un orientamento in cui tutto concorre per il raggiungimento di un fine attraverso singole tappe. Insomma, un orientamento che è itinerario, dove ogni passo deve essere progressione verso un vero che sia sempre più Vero, un buono che sia sempre più Buono ed un bello che sia sempre più Bello.  


Che l’uomo abbia bisogno di zuccheri, si sa. Perché ne abbia bisogno, si sa lo stesso. Nel senso che l’organismo ha necessità di glucosio, fruttosio e quant’altro.

Detto questo, ci si potrebbe fermare qui. E invece conviene approfondire.

C’è chi sostiene che in certi particolari momenti, l’uomo avverta ancor di più questo bisogno. Non per particolari motivi organici e fisiologici, ma psicologici.

Il bisogno di dolce, insomma, in particolari momenti si fa più insistente; e diventa tale proprio perché c’è qualcosa nell’esistere che riconduce all’amaro.

Il 14 ottobre del 1894 il pasticciere veronese, Domenico Melegatti, iniziò la storia di quello che sarebbe stato uno dei dolci natalizi più diffusi in Italia, il pandoro.

In realtà non si sa che origini abbia. C’è chi lo vuole far discendere dalle tradizioni dolciarie della corte viennese degli Asburgo; chi dal rinascimentale pan de oro, tipico di Venezia; chi dal già veronese nadalin.

Il pandoro si distingue (ovviamente non è l’unico dolce che si distingua in tal senso) per due caratteristiche: la dolcezza (e questo va da sé) e l’estrema morbidezza, cioè una grande sofficità.

Alcuni versi di Emily Dickinson (1830-1886) dicono così: Se ne andò silenziosa come la rugiada / Da un fiore consueto. / Non come la rugiada, fece ritorno/ All’ora consueta! / Si dissolse soffice come una stella / Dalla mia sera d’estate.

La poetessa americana allude a qualche triste ricordo, cioè a qualche triste pensiero che può turbare la mente; e sembra alludere che tutte le prove della vita, cioè tutto ciò che stride con l’armonia dell’esistere, di fatto giunge con stridore e può anche ritornare con durezza: Non come la rugiada, fece ritorno/ All’ora consueta!… Ma può sparire e deve sparire con dolcezza: … Si dissolse soffice come una stella…

Ed è così. Pretendere che nella vita non ci sia nulla di amaro e nulla di scomodamente duro, è un’illusione. Piuttosto ciò che deve esserci è la capacità di far sì che ciò che vi è di amaro e di scomodamente duro, si dissolva come “una soffice stella“, per dirla alla maniera della Dickens. E questo non potrà mai essere possibile se quello amaro e quello scomodamente duro non vengano risolti, conferendo ad essi un senso ed un motivo per cui ci sono.

Ed è qui che la Croce di Cristo dimostra essere l’unica, adeguata, persuasiva e conveniente risposta a questo dramma.

E’ proprio sotto quella Croce che l’amaro si trasforma in dolcezza e lo scomodamente duro, in soffice tenerezza.

Ed è per questo che non c’è uomo che non sia attratto dalla dolcezza e dalla sofficità.

Anche il successo di un buon dolce come il pandoro può fornirci degli spunti per capire quanto sia unica e bella la Verità Cattolica.


Dio è Verità, Bontà e Bellezza

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