di Corrado Gnerre
Diaciannove anni fa (4 giugno 199) moriva ad appena 41 anni il famoso comico napoletano Massimo Troisi. C’è uno sketch del suo gruppo originario (La smorfia) che ha un valore filosofico importante. In un angusto basso napoletano vi è un uomo, Salvatore, impersonato da Massimo Troisi, che riceve la visita di un “esperto” sociologo impersonato da Lello Arena. Quest’ultimo si presenta con adeguati e spessi occhiali da “topo di biblioteca” e con altrettanto adeguato tic nervoso. Il sociologo ha la pretesa di dire al padrone del basso che non può conoscere davvero i problemi che attanagliano lui e il popolo napoletano, ma che tali problemi li possono conoscere solo coloro che studiano: “Voi credete di conoscere i vostri problemi… in realtà se non ci fossimo noi …”.
La comicità sta nello sguardo dell’uomo (Massimo Troisi) che osserva, forte del suo buon senso, quegli strani atteggiamenti del sociologo e soprattutto quella pretesa di sapere di più rispetto a chi vive la propria drammatica situazione. Nello sketch, l’intellettuale comunica di aver da tempo scoperto la soluzione per risolvere i problemi della miseria di Napoli: il Vesuvio in realtà non conterrebbe ciò che contiene ogni vulcano, ma squisito purè di patate; perciò si tratterebbe di aprire il vulcano e distribuire tutto quel ben di Dio. Dinanzi alla sorpresa dell’uomo, il sociologo si arrabbia … invece di argomentare per ciò che non è per nulla plausibile: si arrabbia. Anzi è lui a meravigliarsi dell’incredulità di quello che ritiene un uomo sciocco e “fissato”.
Si tratta di una comicità che riconduce lo spettatore a fare una riflessione importante: non bisogna confondere l’uso della ragione con il razionalismo. La pretesa di quel folle sociologo è proprio la pretesa del razionalismo e dell’intellettualismo che sono convinti di sapere di più rispetto a chi vive e a chi sperimenta.
Ragionare non vuol dire produrre un pensiero, ma prima di tutto aderire ad un dato, per poi conseguentemente, su e da questa osservazione, sviluppare un’operazione intellettiva. E’ l’adesione al fatto ciò che apre alla razionalità. C’è una frase del celebre Alexis Carrel (1873-1944), premio Nobel e convertito dopo che fu testimone di uno strepitoso miracolo a Lourdes. La frase dice: “Molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore, molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità.”
Ovviamente, non si tratta di negare il valore del ragionamento quanto di vincolarlo all’osservazione, perché solo l’osservazione vincola al dato. Anzi, è l’osservazione che si apre allo stupore e alla meraviglia che vincola al dato, che riconosce ciò che è, che apre alla verità. Einstein (1879-1955) soleva dire ai suoi studenti: “Non uccidete la meraviglia, perché è la meraviglia più che il dubbio la fonte della sapienza.” Viene da pensare a quella famosa canzone che dice: “…i bambini fanno oh … e i cretini fanno boh…”. L’intelligenza apre allo stupore, la stoltezza al dubbio.
Se dunque il ragionamento è l’esito della meraviglia, il razionalismo no. Il razionalismo è un’altra cosa. Il razionalismo è il partire dal pensiero per arrivare al pensiero, prescindendo totalmente dal dato. E’ l’errore che in un certo qual modo inizia con Cartesio, quando il filosofo francese pretende affermare che il punto di partenza della conoscenza non è il riconoscimento dell’essere ma il pensiero: cogito ergo sum. Perciò non sarebbe l’oggetto a garantire l’esistenza del soggetto, bensì il contrario, sarebbe il soggetto a garantire l’esistenza dell’oggetto. Il razionalismo è la negazione della ragione e conduce all’intellettualismo, che, a sua volta, è la negazione dell’intelligenza.
La posizione dello sguardo, il privilegio dell’osservazione, il partire dal vedere e dal constatare è non solo la posizione più ragionevole, ma anche quella più intelligente. La parola “intelligenza” viene dal latino intus-legit che significa “leggere dentro”. L’intelligenza, pertanto, implica non una conoscenza superficiale ma una conoscenza dentro la realtà. Appunto: la realtà. L’intelligenza ha bisogno della realtà, non ne può farne a meno. Se la realtà non esiste, non c’è modo di poter esercitare l’intelligenza, non c’è modo di essere intelligenti.
Siamo partiti evocando uno sketch di attori napoletani, rimaniamo nella stessa città e ricordiamo uno dei suoi figli più illustri, Giambattista Vico (1668-1744). La grandezza e la cattolicità di questo filosofo sta soprattutto nel suo aver saputo individuare l’errore strutturale del razionalismo illuministico, ovvero la pretesa di confondere la verità con la certezza razionale, cioè di confondere ciò che è vero con l’astratto procedimento di ordine intellettuale. Vico demolisce questo assunto e, basandosi sul dato del senso comune (dato fondamentale per qualsiasi indagine filosofica), afferma che il vero sta nel fatto. Al cogito ergo sum cartesiano, il filosofo napoletano sostituisce il suo verum est factum: è vero non ciò che la mente umana certifica, bensì ciò che è realmente tale.
La sapienza è esito dello sguardo, non del pensiero. La scoperta della verità è frutto di un incontro e di un riconoscimento, non di un procedimento intellettuale. L’intelletto certamente serve, ma serve a comprendere l’incontro, non a sostituirlo. La sapienza è frutto della meraviglia, di quella meraviglia, che, come ebbe a dire Thomas Carlyle (1795-1881), “…è la base dell’adorazione”.
Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri
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