Commento del Catechismo di San Pio X (n.223)

A cura di Pierfrancesco Nardini


Domanda: Cosa ci ordina il terzo precetto: Confessarsi almeno una volta l’anno e comunicarsi almeno a Pasqua?

Risposta: Il terzo precetto: Confessarsi almeno una volta l’anno e comunicarsi almeno a Pasqua, ci ordina di accostarci alla Confessione almeno una volta l’anno, e all’Eucaristia almeno nel tempo di Pasqua.


Si deve sin da subito specificare che il terzo precetto della Chiesa pone per i fedeli una soglia minima, di certo non un ideale. Questo per sgombrare immediatamente il campo dal pensiero che basti una Confessione e una Comunione all’anno. Pensiero che poi diventerebbe una giustificazione per la propria indifferenza. Per usare un’immagine, quanto ordinato nel precetto è una sorta di soglia sotto la quale si scivolerebbe nell’indifferenza, se non nell’abbandono della vita cristiana.

Ai nostri giorni, con la crisi nella Chiesa in corso da decenni e con la conseguente indifferenza religiosa oramai dilagante, probabilmente la soglia dovrebbe essere molto più alta, per riportare l’attenzione degli uomini sulla necessità di questi sacramenti.

Nei primi secoli i fedeli sapevano benissimo che era necessario per la salvezza dell’anima di doversi accostare spesso alla Confessione e all’Eucaristia. “Nei primi secoli della Chiesa non vi fu bisogno di nessuna legge per obbligare i fedeli alla Comunione, che essi ricevevano ogni volta che assistevano al santo Sacrificio della Messa” (Dragone). Poi ci sono volute regole e conferme vincolanti (Concilio di Trento).

Ciò che è minimo non è mai da intendere come ottimale. E, soprattutto, si deve adattare il concetto di minimo all’epoca che si vive. Il precetto non dice “è bene confessarsi una volta l’anno”, ma “è necessario farlo almeno una volta”.

La Chiesa, nella sua sapienza materna, indica il limite sotto cui il fedele mette in pericolo la propria salvezza, e oggi sarebbe interessante vedere quale limite metterebbe la Chiesa di allora nella situazione attuale.

L’ideale, però, resta ben altro: la frequenza regolare alla Confessione e la Santa Comunione ricevuta con cuore puro e degno, come nutrimento ordinario dell’anima. San Pio da Pietrelcina era solito consigliare la Confessione settimanale. San Tommaso d’Aquino, nel Commento al Vangelo di Giovanni, scrive: “questo sacramento è spiritualmente utile a tutti, perché accresce la grazia e alimenta la carità; perciò è bene riceverlo frequentemente”. E ancora nel Summa Theologiae: “siccome la vita spirituale deve essere alimentata come quella corporea, e poiché la Comunione è cibo spirituale, è conveniente che l’uomo la riceva spesso” (III, q. 80, a. 10).

La confessione annuale è dunque come la boccata d’aria per chi sta soffocando. Il cristiano che desidera vivere davvero secondo Dio, però, non deve arrivare alla respirazione bocca a bocca per salvarsi, sa (in teoria) che l’anima ha bisogno di confessioni frequenti, fatte con serietà e sincerità, e di comunioni preparate con raccoglimento, non semplicemente “dovute” per non cadere nel peccato grave d’omissione.

San Giovanni Crisostomo su questo ammoniva che “molti si accostano all’altare come per abitudine, senza timore, senza coscienza, come se prendessero cibo comune. Non è così che si riceve il Corpo del Signore”. E, in effetti, quante volte capita di notare questa indifferenza, questa poca attenzione al momento dell’avvicinarsi a Cristo? La Comunione data sulle mani non è una sorta di conseguenza anche della poca attenzione a Chi si va a prendere in quel momento?

Perché, dunque, questo terzo precetto? Perché la Chiesa – Mater et Magistra – conosce le debolezze dei suoi figli e vuole garantire loro almeno un incontro annuale con la grazia sacramentale (sempre ripetendo che, probabilmente oggi sarebbe richiesta una frequenza più assidua).

È, insomma, un atto di misericordia, ma anche un implicito richiamo alla responsabilità: se ti confessi e comunichi solo una volta l’anno, ti stai nutrendo a malapena; vivi con l’anima anemica, e spesso a rischio di morte spirituale. Sant’Agostino ci sollecita ammonendo “guai a chi si accosta alla mensa del Signore indegnamente; non per questo però dobbiamo astenerci, ma dobbiamo accostarci con timore e amore” (Sermo 227).

Il tempo pasquale -specificato dal precetto- non è un caso. È, infatti, il centro dell’anno liturgico, il culmine del Mistero della Redenzione. In quel tempo, ogni cristiano è chiamato a rinnovare con maggiore consapevolezza la sua adesione a Cristo, e non a compiere una formalità.
Comunicarsi a Pasqua dovrebbe essere l’atto più alto e importante dell’anno, non un gesto meccanico e isolato.

Il terzo precetto, pertanto, va compreso nella sua giusta prospettiva: non un “permesso” a trascurare i sacramenti, ma un campanello d’allarme per chi sta vivendo la fede in modo fiacco o assente. Chi ama Dio non si limita a ciò che “deve”, ma cerca ciò che “piace a Dio”, cerca di stare con Lui ogni volta che può. “Preghiamo perché si rialzi il livello della vita cristiana e tutti frequentino con più assiduità i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia” (Dragone).


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