Perché l’unica intelligenza possibile è lavorare per l’eternità?

1.La punizione paradigmatica per significare un lavoro inutile è quella del Mito di Sisifo. Questi era stato condannato dagli dèi a portare un pesante masso fin la sommità di un monte, masso che poi inevitabilmente rotolava giù, e così dover riprendere la sua fatica senza mai fermarsi.

2.A che serve lavorare per poi orientare i frutti del proprio lavoro alla dissoluzione? Chi si sente di conservare per poi esser costretto a perdere ciò che ha conservato? O chi costruisce per poi demolire? O chi cerca di sanare per poi fare ammalare? Solo la stoltezza spingerebbe a ciò.

3.Il tempo è suscettibile di due concezioni, una terza non c’è. O è uno scorrere verso la pienezza dove tutto potrà essere recuperato; oppure è uno scorrere verso il nulla, dove altro non può che attendere se non l’abisso, la dissoluzione e il trionfo dell’oblio. Se si sceglie questa seconda concezione, allora non vale la pena conservare o costruire, né tantomeno operare. Diventa tutto stolto, sciocco, assurdo…diventa tutto una follia. Altra cosa è invece se il tempo è l’antipasto dell’eternità.

4.Padre Rodolfo Plus così scrive in Dio in noi: “Io sono ‘cielo’! E’ la conclusione da dedurne: lavorare a mettere il ‘cielo’ nell’anima mia, per metterne sempre di più. Seminare nel tempo, per raccogliere nell’eternità: abbiamo altre ragioni di vivere quaggiù? Chi vorrebbe, dunque, dopo matura riflessione, collocare altrove lo scopo della sua vita?”


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